Dieci anni rubati. Un quarto di vita passato sotto violenza, senza riuscire ad ammetterlo a se stessa. La sensazione di meritarsi quelle brutture, di essere sporca e colpevole. Claudia Vincenzi, la cesenate autrice di “Plagiata” (Mondadori) oggi parlerà della sua atroce esperienza all’incontro “La violenza di genere: l’istituzione si interroga” in programma dalle 15 alla sala Pieratelli dell’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì. L’inferno di Claudia, che dai 21 ai 31 anni circa è stata nelle mani di un sedicente mago poi condannato anche per reati sessuali, oggi è una testimonianza che vale per tutti.
Claudia, lei oggi ha 42 anni. Sono passati dieci anni dalla fine dei terribili abusi. E’ in grado di spiegare perché era così difficile squarciare il velo e farsi aiutare?
“I motivi sono tanti, a partire dall’ingenuità che all’inizio mi avvicinò a quell’uomo e che mi faceva pensare che no, a me quelle cose non sarebbero potute accadere. Poi l’insicurezza e l’isolamento al quale fui poco a poco portata: un isolamento dagli altri ma anche da me stessa.  Infine il contesto di minacce nei confronti miei e della mia famiglia, che prendevo per vere e quindi pericolose”.
Per arrivare alla decisione di denunciare le violenza psicologiche e sessuali, quali ostacoli ha dovuto superare?
“Nel momento in cui ho iniziato a vedere la realtà per quella che era, a non nascondere più a me stessa la gravità dei fatti che stavo subendo e a registrarli alla voce ‘violenza sessuale’, si è come scoperchiata una pentola a pressione. La rabbia soppressa è diventata produttiva. E la preoccupazione per le conseguenze che la mia denuncia avrebbe potuto avere è stata scavalcata dalla convinzione che era la cosa giusta da fare”.
Quando è arrivata la vera liberazione?
“Nel preciso istante in cui ho cominciato a dare un nome alle cose, nell’attimo in cui ho riconosciuto di essere in uno stato di sudditanza”.
Sapeva che fuori qualcuno le avrebbe potuto dare una mano?
“Assolutamente no. L’autore delle violenze era il mio unico punto di riferimento. Non mi confidavo con nessuno. Né tantomeno cercavo una rete di sostegno a livello sociale: mi sentivo cattiva, brutta, colpevole. Non potevo quindi immaginare quali risorse esistessero, istituzionali e non”.
Quando ha iniziato a mettere insieme i pezzi, invece, che cosa ha capito?
“Ho visto il retro della medaglia. Chi plagia ha un disegno lucido e preciso fatto di vari passaggi, tutti finalizzati a far percepire alla vittima una realtà distorta. A quel punto, però, era subentrata la paura di non essere creduta”.
Anche dopo, a soprusi finiti e denuncia fatta, quel timore è rimasto?
“In parte sì. Quando ho ultimato il libro, l’ho fatto leggere alle amiche. Ricordo bene il senso di vergogna e la paura di essere giudicata. Pensavo che alcune mi avrebbero poi voltato le spalle. Invece la loro reazione è stata per me un nutrimento. Tenere nascosta la mia storia mi aveva creato fino a quel momento solo problemi: anche davanti ad una banale domanda, andavo in tilt. Dovevo mentire, fare scena muta o fingere di non aver sentito”.
Oggi che vita fa?
“Fino a quattro anni fa facevo l’impiegata ma nel momento della denuncia e della pubblicazione del libro ho sentito l’esigenza di lasciare. Mi sono da poco iscritta all’Università. Studio Criminologia a Forlì. Nel frattempo sto cercando di reinserirmi nel mondo del lavoro. Amo i libri e la musica. Gli alti e i bassi ci sono, a volte ho la sensazione di non aver risolto nulla ma so che non è così. Il bello è che ho ridato fiducia a me stessa e ne sono uscita. Questo è l’importante. Le persone hanno risorse insospettabili, basta cercarle”.
Quanto sente l’esigenza di far conoscere il fenomeno del plagio e le sue conseguenze agli altri?
“Moltissimo. Piano piano ho iniziato a non sopportare più di avere la voce camuffata e il volto coperto, come se la vittima fosse quella che si deve nascondere. Ho deciso di farmi vedere, raccontarmi pubblicamente. Ed è stato un passo decisivo”.