Infibulazione: in Emilia Romagna fenomeno poco diffuso ma per combatterlo serve una generazione

Le mutilazioni genitali femminili sono un fenomeno poco diffuso in Emilia Romagna. Un dato che rincuora, insieme al fatto che si tratti di una pratica che le donne abbandonano dopo cinque anni dal loro arrivo in Italia. Per combatterlo ci vuole una generazione.
Sia per le donne italiane sia per quelle straniere le mutilazioni sono sintomo di mancata civiltà e violazione dei diritti umani.
I dati emergono da un’indagine coordinata dall’Ausl di Bologna, in collaborazione con le Ausl di Forlì, Parma e Reggio Emilia, l’Università di Bologna, Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Amnesty International, International center for reproductive health dell’Universitàdi Ghent (Belgio), Regione Emilia-Romagna e Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos), presentata in Regione in occasione della Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili.
L’indagine ha coinvolto 80 donne straniere e 268 italiane residenti in regione, oltre a 212 operatori. Le divergenze tra italiane e straniere riguardano la conoscenza delle quattro tipologie di mutilazioni genitali (circoncisione, escissione, infibulazione, interventi di varia natura sui genitali femminili esterni) e i danni fisici e psicorelazionali provocati: le straniere sono meno consapevoli rispetto alle italiane.
Per le donne che arrivano dai Paesi in cui si pratica l’infibulazione (soprattutto Somalia, Egitto, Guinea, Sierra Leone, Gibuti, Mali, Sudan), spesso si tratta di un rito di inclusione sociale.
“La decisione di sottoporre la propria figlia alla pratica non è solo frutto di una convinzione individuale – spiega Maria Giovanna Caccialupi, responsabile Progetto salute e immigrazione dell’Ausl di Bologna – ma anche di una norma sociale della cultura di appartenenza: con la circoncisione la bambina diventa donna e assume un ruolo riconosciuto all’interno della comunità”. Secondo l’assessore regionale alle Politiche sociali, Teresa Marzocchi,  è emerge chiaramente come “non si tratti solo di un problema sanitario ma che riguarda il benessere della persona. Non dobbiamo affrontare questi argomenti da soli ma confrontarci, senza giudicare, per costruire percorsi di cambiamento insieme, formare il personale per dare risposte appropriate e lavorare per costruire reti territoriali”. Secondo lo studio, infatti, per eliminare l’infibulazione bisogna coinvolgere diversi attori: le donne, la famiglia, la comunità di appartenenza, i centri di aggregazione, i servizi socio-sanitari.
“Dallo studio risulta che la migrazione influisce sulla diffusione della pratica e che il superamento è possibile nell’arco di una generazione “, spiega Ilaria Simonelli, sociologa della salute e degli stili di vita che ha condotto l’indagine. Gli operatori hanno evidenziato la necessita’ di una formazione specifica sul tema e di linee guida per affrontare i casi di mutilazione.
Le mutilazioni genitali femminili, praticate su oltre 130 milioni di bambine nel mondo, con oltre tre milioni di nuovi casi ogni anno, sono riconosciute dall’Assemblea generale dell’Onu come violazione dei diritti umani.
“In Emilia-Romagna il fenomeno è poco diffuso – aggiunge Caccialupi- perché ci sono pochi immigrati provenienti dai Paesi in cui il rito è praticato. Il fenomeno è comunque difficilmente quantificabile: si entra in contatto con donne che hanno subito la mutilazione in occasione di visite o del parto”.
Tra gli interventi previsti per combattere il fenomeno, corsi di formazione e aggiornamento per gli operatori, insieme ad attività di informazione in grado di sensibilizzare la popolazione. Tutto grazie ai 380.000 euro che saranno assegnati dal governo.

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