Dietro la parola autismo si nascondono i casi più disparati. E anche una certa dose di false credenze e paura. Per Serenella Grittani, responsabile del Centro Autismo e Disturbi dello Sviluppo di Rimini (UO di NPIA – ASL di Rimini), uno dei tre di riferimento per l’Emilia-Romagna insieme a Bologna e Reggio Emilia, bisogna bandire ogni forma di terrorismo.
Dottoressa, perché al solo pronunciare la parola “autismo” si pensa subito al peggio?
“Io preferisco parlare di disturbi dello spettro autistico, proprio per indicare la grande varietà di situazioni che esistono. Purtroppo, però, nell’immaginario collettivo l’autismo è associato a persone che non parlano, o che hanno un grave ritardo mentale accompagnato a capacità brillanti in alcuni settori o che presentano aggressività difficilmente gestibile. Tutto questo spaventa molto. Non nego che sia un disturbo che compromette fortemente la qualità della vita ma i casi sono davvero molto diversi l’uno dall’altro”.
Quanti ne seguite a Rimini?
“In provincia seguiamo circa 170 pazienti da zero a 17 anni, più circa 70 adulti. Significa che ne soffrono 2,2 persone su mille. Nel 2006 erano l’1,7. Per alcune fasce d’età, oggi, si arriva anche al 3,5 su mille. E dobbiamo aspettarci un ulteriore aumento”.
Sta crescendo il numero dei casi o la capacità di riconoscerli?
“Crescono le diagnosi, non i casi. I genitori oggi sono più competenti e i pediatri molto più attenti. Certo è che ci sono dei fattori di rischio aggiuntivi confermati dalle ricerche scientifiche: la crescita dell’età media del concepimento, la fecondazione assistita e le patologie perinatali. Non dimentichiamo, poi, quelle situazioni lievi che dieci anni fa non avremmo inquadrato come autismo”.
Nella grande varietà che diceva, che cosa accomuna gli autistici?
“Una scarsa competenza sociale, insieme a disturbi di comunicazione ed interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi. Dal 2009 in regione i pediatri utilizzano uno strumento che si chiama CHAT, con il quale vedono se il bambino è in grado di fare un gioco simbolico, se sa imitare, se usa l’indicazione, se presenta un contatto oculare adeguato.Spesso infatti i genitori, soprattutto se al primo figlio, non sanno bene cosa devono aspettarsi in una determinata fascia di età. E magari sottovalutano che alcune competenze non siano ancora state acquisite”.
Ci sono bambini che hanno meno bisogno di aiuto di altri?
“No, l’attenzione dev’essere alta per tutti. E’ vero che i bambini più gravi possono presentare comportamenti aggressivi e autolesionisti che non sono tipici dell’autismo ma che chiaramente sono quelli di maggiore impatto. Ma non dimentichiamo che anche i bambini con un’ottima capacità cognitiva e un linguaggio fluente, non capendo cosa succede intorno a loro possono sviluppare una bassa tolleranza alla frustrazione, presentare ansia, depressione, fino a spunti paranoici ed essere più vulnerabili (ad esempio sono frequentemente vittime di bullismo). E’ il caso della sindrome di Asperger. Insomma, tutti devono essere seguiti con la stessa attenzione e, in epoca precoce soprattutto, con competenza e intensività”.
Le proposte di trattamento quali sono?
“Dipende dall’età anagrafica e di sviluppo. Per i bimbi piccoli gli obiettivi riguardano soprattutto l’imitazione e la comunicazione. Con i più grandi, ci si concentra sulle autonomie e l’autodeterminazione, con i più abili si usano programmi d’intervento con la finalità di insegnare abilità socio-comunicative più ‘raffinate’, per esempio come si inizia una conversazione, come si fa a capire che l’altro si sta annoiando, che cosa è rappresentato in una certa immagine, la codifica e l’espressione delle emozioni. Ma sono solo alcuni esempi. A volte i genitori ci dicono che il bambino è autonomo. Ma il voler fare tutto da solo può significare che evita di comunicare con gli altri”.
Prevedete anche un supporto per le mamme e i papà?
“I genitori sono la nostra prima fonte di informazione sia in ambito diagnostico che durante l’intervento. Vengono invitati nella stanza di trattamento, dove una psicologa li instrada verso le modalità di approccio più indicate. Organizziamo anche dei parent training a gruppi di poche coppie per dare informazioni e supporto ma soprattutto per favorire uno scambio tra di loro. A volte questo si rivela più efficace delle nostre indicazioni”.
La teoria della “mamma frigorifero” è definitivamente superata?
“Assolutamente sì, ma è sempre bene sgombrare il campo da equivoci. L’autismo non è una patologia del contatto affettivo. Gli autistici sono affettuosi e molto legati ai genitori. A volte non tollerano il contatto fisico ma solo perché hanno difficoltà nelle percezioni sensoriali. L’autismo è un disturbo neurobiologico, ha un’origine genetica e non è una patologia progressiva, il picco dei sintomi è intorno ai 4-5 anni, poi può solo migliorare, ma sempre in presenza di un approccio educativo corretto. In alcune fasi critiche, per esempio durante l’adolescenza, emergono a volte altre difficoltà: il 25-30% inizia a presentare epilessia. L’importante è non fermarsi mai: la persona con autismo può migliorare, in condizioni idonee, per tutta la vita”.
Che rapporto avete con l’associazione Rimini Autismo?
“Con l’associazione abbiamo rapporti di costante collaborazione. La loro sede legale è nel nostro centro. Partecipiamo insieme ad alcuni progetti come il Cineforum, il centro estivo a Villa del Bianco a Misano, corsi di teatro e tutto il settore che riguarda l’inserimento lavorativo e tanto altro”.
A proposito di inserimento, i bambini autistici, una volta a scuola, sono seguiti in maniera adeguata?
“E’ un ambito che deve crescere. Per questo nel nostro programma di intervento per i bimbi più piccoli prevediamo la figura di un educatore che settimanalmente segue i bambini a scuola e contemporaneamente forma gli insegnanti e gli educatori. Sicuramente in Emilia-Romagna il livello è alto rispetto alla media nazionale. Nel 2006 ai nostri teacher training partecipavano venti persone, oggi se ne iscrivono 200. Abbiamo insegnanti che sono diventati bravissimi. E’ chiaro che il precariato, la mancata continuità e il fatto di non seguire corsi specifici possono compromettere un adeguato approccio ai bambini autistici. Ma credo che se un insegnante è motivato e predisposto, può imparare tutto. Anche qui, alcuni bambini saranno più fortunati e altri meno”.
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