Il pediatra: “I figli non sono fogli di Excel, un unico modo di crescerli non c’è”

Ricette, consigli pronti, regole, tabelle di marcia. Nel libro “Crescere un figlio” (Mondadori) di Alessandro Volta, pediatra all’ospedale di Montecchio Emilia, non troverete nulla di tutto ciò. La sua ultima uscita potrà anche comparire nel reparto “manualistica per genitori” ma è – o almeno vuole essere – qualcosa di molto diverso.
Dottore, tra metodi per fare la nanna e fasi dello svezzamento, i prontuari per neo-mamme e neo-papà imperversano. Lei, invece, che cosa ci vuole dire?
“Il mio non è un manuale. Trovo che i vademecum siano inutili e dannosi, anche se i genitori ne fanno largo uso. Soprattutto le primipare ultraquarantenni sono a caccia di di schemi. Purtroppo o per fortuna, però, i figli non c’entrano nulla con un foglio di Excel, sono portatori di situazioni molto più imprevedibili. Affidarsi ad un libro che per tutto ci indichi una strada a senso unico è un inganno. E toglie ai genitori consapevolezza e autostima. Quando poi insegnano un metodo, i libri del genere sono ancora peggio: inducono gli adulti a pensare di non essere all’altezza”.
Vale ancora il vecchio e sano principio del buon senso?
“Sì, un metodo standard non esiste. Nel libro dico che bisogna partire dal bambino. In ambulatorio e al punto nascita vedo genitori a caccia di soluzioni che risultano solo un’illusione. Anche nella gravidanza succede, prendiamo la translucenza nucale: si pensa che sia la risposta definitiva sullo stato di salute del bambino, quando invece esclude soltanto la presenza della sindrome di Down”.
Sono quindi le mamme attempate a cadere nell’inganno?
“Non solo loro. Certo è che avere il primo figlio a 40 anni non è come fare il terzo alla stessa età. Si fatica a capire che è il bambino che abbiamo davanti a farci delle domande specifiche e siamo noi, insieme a lui, a dover trovare le risposte”.
L’eccesso di informazione dell’era tecnologica mette i bastoni tra le ruote ad una gestione più individualizzata dei figli?
“Di sicuro crea confusione, le variabili in gioco sono troppe. Serve un filtro che lasci ai genitori libertà di pensiero. Questo ho voluto fare io: dare input e suggerimenti senza levar di mezzo l’intuito, la riflessione personale, l’innato sapere. Bisogna lasciare spazio alla creatività”.
Non esiste, quindi, un modo giusto di crescere un bambino?
“No, tanto è vero che la puericultura non è una scienza, ce n’è una per ogni cultura. Senza contare che il bambino cambia velocemente e ogni risposta preconfezionata lascerebbe perciò il tempo che trova”.
Come fa un medico a suggerire una strada senza fornire delle verità?
“Ho usato due strumenti. Prima di tutto ho utilizzato ventuno domande che in molti anni sono arrivate a me sul sito Voci di Bimbi. Domande su tematiche molto concrete come le vaccinazioni, lo svezzamento, il sonno, la gelosia e sulle quali ragiono e do spazio a soluzioni aperte. E poi ho ripreso alcuni dei post-it che utilizziamo ai corsi pre-parto e che le donne in gravidanza usano per esprimere le loro paure. In questo caso ho dato risposte più brevi a questioni più teoriche, come per esempio il timore di non essere all’altezza del ruolo”.
Non c’è, quindi, una sorta di conclusione su chi è un buon genitore?
“No, però all’annosa domanda se genitori si nasce o si diventa, io rispondo entrambi. Noi nasciamo con i nostri bambini, è vero. Ma ci portiamo dietro un retaggio denso di cose, tra le quali c’è il modo in cui noi siamo stati accuditi, la nostra storia, il nostro portato”.
L’aiuta, nel suo lavoro, il fatto di essere padre?
“Ho tre figli naturali e uno in affido. Conta eccome, certo. Ma conta ancora di più il contatto quotidiano con decine di genitori tutti diversi tra loro. L’ascolto attivo nei loro confronti ha aperto nel tempo i miei orizzonti mentali”.
E tra i suoi orizzonti, i vaccini come si posizionano?
“Questa è la domanda più difficile alla quale ho risposto nel libro. I miei figli li ho vaccinati, quindi sulla bilancia ho già messo vantaggi e svantaggi. Credo che non tutte le vaccinazioni servano: l’anti-influenzale, per esempio, non ha senso, perché l’influenza cambia ogni anno. L’antirosolia serve per evitare infezioni congenite contratte in gravidanza. Il vaccino contro il Palpilloma virus idem, ne abbiamo solo alcuni ceppi, costa moltissimo e non serve a risparmiarsi i programmi di screening al collo dell’utero. Sul morbillo sono meno drastico: dà problemi solo con le epidemie, come è successo di recente in Campania, dove molti bambini sono stati ospedalizzati”.
Altri, invece, sono consigliabili?
“Io non amo dire obbligatori o facoltativi, preferisco dire raccomandabili o poco raccomandabili. Tra i primi ci sono quello contro il tetano, che è una malattia pericolosa, quello contro la poliomelite, almeno finché non sparirà dal pianeta, e quello contro la difterite, per l’incapacità di diagnosticarla: la mia generazione di pediatri non l’ha mai vista. Va ricordato che le vaccinazioni non servono al singolo, servono alla comunità. Sarebbe come andare in autostrada con i fari spenti: se gli altri li tengono accessi, non c’è problema. Ma se li spengono tutti, è una strage”.
Scegliere di vaccinare o di non vaccinare, insomma, equivale a prendersi una grossa responsabilità…
“Sì, anche perché oggi si viaggia molto. E poi certe malattie, se contratte da adulti, sono più pericolose: pensiamo agli orecchioni. Così come l’epatite: è difficile prenderla, è vero, ma se da adolescente nostro figlio vorrà farsi un tatuaggio o mettere il piercing, il problema si ripresenterà”.
E gli interessi dell’industria farmaceutica, quanto influiscono sulle politiche sanitarie?
“Gli interessi ci sono e vorrei non vederli più. Anche noi medici subiamo le logiche del marketing delle aziende. Mi piacerebbe vedere ricerche indipendenti, finanziate dallo Stato e sopra le parti per monitorare meglio gli effetti collaterali. Il legame tra vaccinazioni e autismo, per esempio, non è stato dimostrato né in un senso, né nell’altro. Non siamo in grado di confermalo, tantomeno di negarlo”.
Le cose non sono chiare nemmeno sul fronte allattamento: che il seno sia il top della gamma siamo tutti d’accordo. Ma chi sta dalla parte di chi non lo fa?
“Questo è un problema, in effetti. Siamo passati da un estremo all’altro: c’è stato un periodo in cui, spinti dalla filosofia dell’emancipazione della donna e dall’industria alimentare, facevamo allattare quasi tutti i bambini con l’artificiale. Per contrastare quella moda, poi, si è deciso di spingere sull’allattamento al seno. Era un passaggio da fare ma abbiamo forzato la mano”.
Come si risolve l’eccessivo zelo?
“Oggi è necessario frenare, aiutando chi vuole essere aiutato. Da professionista devo cercare di capire la scelta della madre e proporzionare il sostegno. Se ha scelto di non allattare, la devo aiutare il doppio, rafforzando la sua relazione con il bambino in tempi e modi che esulano dalla poppata al seno. Dovrò dire a quella madre che il pasto ha una valenza relazionale, che può andare al cinema e a cena con il marito – è anche un antidoto alla depressione – ma il più delle volte dovrà essere lei a dare il biberon. Allo stesso modo, per scongiurare le paure dell’allattamento prolungato, dovrò spiegare che seno e biberon si possono alternare senza problemi. Il rischio, sennò, è che la simbiosi mamma-bambino venga allentata troppo tardi, che il bimbo a un anno non abbia ancora avuto relazioni sociali con figure diverse dalla madre”.

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