Isolate, con problemi economici, senza sostegno e rete, senza un welfare che le prenda in considerazione. Le famiglie monogenitoriali, dove quindi c’è un unico genitore a farsi carico (almeno principalmente) della gestione, della cura e del mantenimento dei figli minori, sono una di quelle realtà visibili ad occhio nudo ma invisibili alla politica. Chi ne incarna il modello ora si fa avanti, chiedendo prima di tutto un riconoscimento sociale che sia propedeutico a politiche adeguate e ad hoc. Gisella Bassanini, architetto e ricercatrice milanese, è una mamma sola. Sua figlia Matilde porta il suo cognome. La sua- come ci racconta – è una famiglia genitoriale nel senso più puro della definizione: il padre non c’è in pratica mai stato. Altre famiglie come la sua, invece, sono conseguenza di una separazione, di un divorzio, di una vedovanza. Gisella è tra le fondatrici di Small Families, un gruppo di monogenitori che presto si dovrebbe costituire in associazione.
Gisella, come vi state muovendo?
“Abbiamo lanciato un questionario on-line per sondare chi siamo, quali bisogni abbiamo, che tipo di vita conduciamo. Finora ne sono tornati indietro 250 e ne stiamo analizzando i dati. Ogni settimana, sul nostro sito, racconteremo che cosa ne emerge. Vorremmo che altre realtà prendessero in mano questo strumento per fare la stessa indagine su altri territori”.
Il problema è che mancano cifre precise sul fenomeno?
“L’Istat nel 2009 ha diffuso il dato secondo il quale il 13% delle famiglie italiane sono monogenitoriali: è un fetta parecchio consistente. Ma il fenomeno resta purtroppo in ombra, non viene considerato né dal dibattito politico né dalle azioni di welfare. Molte di queste famiglie sono vicine alla soglia di povertà”.
In quanti casi c’è una donna a capo di queste famiglie?
“Si parla di una percentuale intorno all’85% dei casi. Se pensiamo che le donne sono quelle con lavori più precari e meno pagati rispetto agli uomini, si capisce subito perché la qualità di vita delle famiglie monogenitoriali sia spesso bassissima. Quello che raccontiamo è un vero urlo di dolore”.
Succede lo stesso in Europa?
“No, molti Paesi sono più avanti. A Barcellona, per esempio, esistono sconti per i mezzi pubblici per le famiglie monogenitoriali. In Italia non c’è nulla. Non facciamo la guerra ad altri tipi di famiglie ma vorremmo che l’attenzione rivolta, per esempio, a quelle numerose, fosse data anche a noi. Essere monogenitore non è un fatto privato ma pubblico”.
La tua storia che cosa ci può segnalare rispetto alle necessità di chi cresce i figli, in sostanza, da solo?
“Ho vissuto la solitudine, l’isolamento sociale, ho sentito una totale assenza di aiuti e le difficoltà di conciliare la famiglia con il lavoro. Se aggiungiamo che molti devono anche farsi carico dei genitori anziani, la situazione diventa esplosiva”.
Quale obiettivo vi ponete?
“Vorremmo che fossero studiati interventi e servizi dedicati a noi. Per questo chiediamo a chi è nella stessa nostra condizione di compilare il questionario oppure di inviarci le proprie storie, di farci proposte. La partecipazione attiva è fondamentale”.
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