Per la prima volta a Ravenna, Palazzo Merlato si illuminerà di blu per sensibilizzare l’opinione pubblica sui disturbi dello spettro autistico. Succederà a partire da questa sera e fino a domani 2 aprile, giornata mondiale dell’autismo. A convincere il Comune ad aderire a “Light it up blu” è stata l’associazione Angsa Ravenna, in particolare la sua presidente Noemi Cornacchia, una mamma in prima linea nella lotta per i diritti delle persone autistiche. Domani la incontrerete anche alle 15,30 allo Chalet dei Giardini Pubblici per una chiacchierata ed una festicciola con le famiglie alla quale parteciperà anche l’assessore comunale Giovanna Piaia, e alle 21,15 al Cinema Mariani dove verrà proiettato “Pulce non c’è” (ingresso a prezzo speciale di 5 euro e incontro con il regista Giuseppe Bonito una mezzoretta prima). Un film tratto dal libro di Gaia Rayneri, che ha raccontato la vita della sorellina autistica, la cui famiglia si era affidata alla famosa comunicazione facilitata, creando con il tempo un tragico equivoco che portò il padre ad essere accusato di aver abusato della figlia.
Neomi, qual è la vostra esperienza con la comunicazione facilitata?
“Come dicono le linee guide dell’Istituto Superiore di Sanità, non è lo strumento adeguato per le persone con autismo: quello che scrivono non è frutto della loro mente. Io sono aperta a considerare nuove soluzioni ma spesso noi genitori siamo disposti a riconoscere progressi laddove non ci sono, pur di convincerci che qualcosa sta migliorando: ho visto una mamma che cercava di farmi credere che fosse stata la figlia a scrivere bellissime poesie. Era invece lei stessa, muovendo la riluttante mano della ragazza su un alfabetiere, a farle toccare certe lettere. Si prova tanta tenerezza e tanta pena di fronte a queste situazioni”.
La solitudine spinge ad aggrapparsi a tutto ciò che appare d’aiuto?
“Non c’è dubbio. Però l’I.S.S. ha emanato linee guida per l’autismo nel novembre 2011, indicando come più opportuno l’intervento precoce ed intensivo, di tipo cognitivo-comportamentale. Alcune famiglie, sulla scorta di queste evidenze, scelgono di affidarsi all’approccio Aba (Applied behaviour analysis), che prevede un percorso di almeno 25 ore alla settimana. La spesa che queste famiglie affrontano è elevatissima, tuttavia è anche difficile trovare i pochi analisti privati che posseggono le opportune certificazioni. Nei servizi pubblici ravennati ci sono valide persone che, pur non applicando un protocollo ABA, vantano esperienza e adottano tecniche cognitivo-comportamentali efficaci. Il problema, caso mai, è l’intensività del trattamento, penalizzata perché gli operatori, per le scarse risorse, non riescono ad assicurare più di una/due sedute ambulatoriali alla settimana (compresa la logopedia), oltre al sostegno ai genitori e alla supervisione alla scuola. Senza contare che all’età di sette anni del bambino, l’intensività finisce e viene meno anche ciò che prima veniva garantito: rimane la consulenza alle scuole e la disponibilità a dare sostegno alla famiglia nei casi di necessità, ma si dovrebbe poter fare molto di più”.
Il problema si dilata ancora di più per gli adulti autistici?
“Sì, lì il problema si fa catastrofico. Dopo i 18 anni l’autismo non esiste più nemmeno nelle categorie nosografiche degli psichiatri. Come associazione stiamo lottando a livello nazionale: ci sono tre progetti di legge depositati in Senato, che prevedono fra le altre cose anche la presa in carico per tutta la vita. Io sono anche presidente regionale dell’Angsa e faccio parte della Consulta regionale per la salute mentale: ruoli che mi hanno consentito, dopo tante battaglie, di sensibilizzare i Servizi sul tema della presa in carico per gli adulti. Per Ravenna segnalo che il 9 aprile incontreremo la dottoressa Paola Carozza, direttore D.S.M. (Neuropsichiatria infantile e Psichiatria ) e la sua equipe per dare vita ad un team sperimentale di presa in carico di un piccolo numero di autistici in età adulta. Speriamo che questa esperienza, pur priva di risorse aggiuntive, possa fungere da traino per il riassetto futuro dei servizi, ponendo fine ad un vuoto assistenziale”.
Nel frattempo, alle carenze del pubblico cercate di sopperire voi volontari?
“Nel 2010, come Presidente regionale, ho voluto e ottenuto che nascessero le sedi provinciali dell’Angsa: sul territorio è più facile avviare raccolte fondi, accedere a finanziamenti locali. Si fanno lo stesso salti mortali, ma qualche progetto lo si riesce a portare avanti: al momento siamo impegnati nella quinta edizione di ‘Vengo anch’io’, dedicato all’incremento delle abilità sociali dei ragazzi, seguiti in piccolo gruppo da una psicologa ed un educatore; poi nel recente ‘Progetto Basket’; infine con la Uisp, i cui insegnanti di nuoto hanno partecipato ad una breve formazione per accogliere i ragazzi autistici. Per incentivare l’esperienza, Angsaravenna sostiene una parte delle spese. L’importante è far capire che sebbene i servizi non riescano a dare tutto ciò che serve, noi non siamo qui solo per erogare interventi: da parte delle famiglie serve partecipazione, coinvolgimento, il nascere di un senso di appartenenza per condividere la strategia politica da presentare ai tavoli di concertazione, altrimenti difficilmente si otterrà quello di cui tutti noi abbiamo bisogno”.
Le diagnosi, dicono le statistiche, sono in aumento: segno positivo?
“Che ci sia una capacità diagnostica migliore che in passato è indubbio, anche se al contempo i numeri sono preoccupanti: Il Programma Autismo, stando ai dati del 31 dicembre scorso, segue circa 140 casi tra zero e 17 anni. Una ricognizione fatta in maniera grossolana nel 2010 parlava poi di 170 adulti conosciuti ma non seguiti, una cifra comunque sottostimata. Dall’inizio del 2014 sono stati diagnosticati 23 nuovi casi. Il problema è evidente e va ben oltre il raggio di famiglie a noi associate e addirittura ben oltre i casi segnalati al servizio, secondo i dati epidemiologici .
Quanto è importante che l’autismo venga riconosciuto in maniera precoce?
“Moltissimo. La diagnosi precoce deve consentire un intervento precoce nella fase di massima plasticità cerebrale. Io ho un figlio di 26 anni al quale l’autismo venne riconosciuto a otto anni, ben dopo che avevo capito da sola come stessero le cose. Una sera guardai “Rain man” e la notte non chiusi occhio: fu una terribile rivelazione. Senza contare che sono una di quelle mamme che venivano colpevolizzate, associate alla celebre sindrome della ‘mamma frigorifero’ e sottoposte a psicoterapia. Anche a mio figlio venne proposta per anni la psicoterapia: spendemmo 18 milioni e mezzo di lire, salvo poi accorgerci che aveva un problema neurobiologico come l’autismo”.
Quali sono le difficoltà maggiori vissute dalle famiglie?
“Siamo ostaggio dei nostri figli, che hanno bisogno di ambienti e abitudini che non si conciliano con la vita attuale, né con il diritto dei genitori ad esistere come individui. Gli autistici hanno comportamenti che richiedono metodiche di intervento molto specifiche: a volte pensi sia bene dimostrare attenzione, empatia per un atteggiamento, invece è meglio ignorare, per non rinforzare un comportamento. L’angoscia più grande è quando i servizi giustificano le loro carenze cercando di sollecitare il nostro spirito di solidarietà verso altre problematiche e facendoci quasi sentire di togliere ad altri per ottenere. Recenti studi hanno dimostrato un carico di stress per i nostri famigliari superiore a quello che riguarda altre patologie: viviamo una quotidianità logorante e terribile. Quando in famiglia vi è un caso di autismo, è l’intero nucleo famigliare a pagare pesanti conseguenze, compresi i fratelli sani, a cui spesso deve venire negata l’attenzione dei genitori. E in ogni caso, il Programma Autismo che la Regione ha deliberato a seguito delle nostre lotte va rispettato, pur considerando le sofferenze altrui”.
S’impara a convivere con l’autismo?
“Forse mai. Ci uccide il fatto che non ci sia ricerca, che non si sia ancora riusciti ad individuare i geni responsabili (si sa che sono molteplici) ma anche a trovare farmaci per migliorare la vita dei nostri figli, che spesso soffrono di altre comorbidità, come il disturbo ossessivo-compulsivo nel caso di mio figlio. Un ragazzo che a modo suo ha compiuto passi enormi e verbalizza, per fortuna: ma che solo dopo molti anni è riuscito a farmi capire che i morsi che dava alla sua compagna d’asilo per lui erano baci. Che ha subìto la rottura del timpano per l’incapacità di dirmi che aveva male all’orecchio. Ecco, ci si sente terribilmente soli davanti a tutto questo. E non ci resta che lottare per la dignità dei nostri figli. Con l’opportuna abilitazione, possono vivere una vita accettabile ed avere un ruolo lavorativo che dia loro l’autostima necessaria, pur con diversi gradi di sostegno”.
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Grazie a Noemi che da voce alle problematiche delle famiglie che combattono giornalmente con questo misterioso universo.-
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