“Ero ingabbiata tra atti giudiziari, oggi scrivo”: la seconda vita di Serena

Serena Stanghellini
Serena Stanghellini

avvocata Come quando lasci un marito che non ami più. Ti liberi, da un lato. Ma perdi anche un punto di riferimento, dall’altro. Serena Stanghellini non è pentita di avere lasciato la carriera di avvocato civilista, svolta a Ravenna per vent’anni. Ma la decisione è stata sofferta, pensata. Oggi può permettersi per un attimo di non pensarci più. Alle 18,30 presenterà al Caffè Letterario (via Diaz, 26) il suo primo libro “L’avvocata, una storiaccia bizantina” (edizioni del girasole). Replicherà venerdì 6 giugno alla stessa ora alla libreria Liberamente (viale Alberti, 38).
Serena, scrivere le ha aperto mondi inesplorati e ha scatenato decisioni inaspettate: che cosa è successo?
“Faccio fatica a determinare cause ed effetti. Fatto sta che quando ho iniziato a scrivere i primi capitoli del libro, due anni fa, ho cominciato a togliere tempo al lavoro, alle pratiche, alle memorie, alle citazioni. Atti nei quali, probabilmente, mi sentivo ingabbiata. E mi sono resa conto che, pur senza velleità di scrittrice, nella mia vita c’era dell’altro. Ci vorrebbe il lettino di uno psicanalista per capirci qualcosa. Fatto sta che la pubblicazione del libro e l’addio al mio lavoro di avvocato sono stati eventi quasi concomitanti. La scrittura mi ha davvero traghettata altrove”.
Pentita?
“No, probabilmente è stato uno strumento per capire cose di me che non avevo approfondito. Non mi considero portatrice di certezze ma mi è successa la stessa cosa che avviene quando torni da una bella vacanza e fai fatica a riprendere in mano la routine. Il mio lavoro non mi manca, anche se di certo lasciarlo è stato per me un fallimento: quando ti rendi conto che hai investito tempo ed energie in qualcosa che probabilmente non corrispondeva a ciò che avresti voluto davvero fare, la vivi come una sorta di sconfitta”.
Anna, la protagonista del libro, è il suo alter ego?
“Trovo odiosa l’autoreferenzialità anche se sarebbe stupido negare che io e Anna possiamo avere punti in comuni. Più tardi chiamerò un’amica e le chiederò quanto Anna mi somiglia. Mi mette in crisi questa domanda: preferisco affidarmi ad un sondaggio”.
Ieri le aule dei tribunali, oggi una platea di lettori: preoccupata?
“Molto, quella di oggi sarà la prima presentazione e sto pulendo casa in maniera maniacale pur di non pensarci”.
Come possiamo definire il suo romanzo?
“Non mi piacciono le catalogazioni. C’è de giallo, sì. Ma è anche un racconto, una storia di autoanalisi. Dove non manca l’ironia. L’ambiente nel quale ho lavorato per una vita è come un grande circo, ci sono un sacco di spunti, l’osservatorio che si riesce ad avere è interessante da tanti punti di vista”.
“Avvocata”: appassionata di linguaggio di genere?

“No, quando mi chiamavano così provavo fastidio. Non perché non consideri giusto che una qualifica venga resa anche al femminile, tutt’altro. In italiano è una parola che suona male. Non trovo ci sia nulla di offensivo nel chiamare una donna avvocato. Non ne sminuisce il peso, né la credibilità”.
A casa come hanno preso la sua avventura letteraria?
“Mia figlia, che ha 25 anni, ha letto il libro una volta ultimato, così come legge Chiara Gamberale. Mio figlio di 17 credo abbia dato un’occhiata in qua e in là: preferisce i fantasy. Mio marito, non so, credo che al pari di mio figlio lo abbia letto nottetempo. Sono una persona riservata, quando il libro è uscito non abbiamo fatto i fuochi d’artificio, siamo stati molto sobri”.

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