Notti in bianco e sentenze inaccettabili. La giudice: “Quanti pregiudizi sulla pelle delle donne”

paola-de-nicola-la-giudiceNon dormire la notte per allattare ma andare in udienza la mattina dopo come se nulla fosse. Accorgersi una, cinquanta, cento volte di non essere riconosciuta come giudice perché donna. Assistere, impotente, a sentenze “inaccettabili” perché intrise di pregiudizi di genere. Paola Di Nicola, giudice dibattimentale del Tribunale di Roma, sarà domani alle 9 all’Almagià di Ravenna nell’ambito di “RiGenerAzioni”, la tre giorni dedicata al sovvertimento degli stereotipi. Farà tesoro della sua esperienza, in parte raccontata nel libro “La giudice” (881), per raccontare come le donne debbano ancora dimostrare, quotidianamente, di valere ed essere attendibili.
Paola, se in magistratura ci fossero più giudici uomini, certe sentenze non verrebbero emesse?
“Non credo sia una questione di chi giudica, uomo o donna. Il problema ha a che fare con il pregiudizio che il giudice o la giudice ha in testa nel momento in cui deve decidere. Se si è consapevoli di avere in testa uno stereotipo quando si entra in aula, è facile liberarsene. Se non se ne è consapevoli, è la fine”.
Per esempio?
“Nel settembre di quest’anno la Cassazione ha detto che una violenza sessuale completa e reiterata nel tempo da parte di un uomo nei confronti di sua moglie è un caso nel quale potrebbe prefigurarsi la minore gravità del fatto, che è un’attenuante che si dà in casi limite, come la classica pacca sul sedere o lo sfioramento del seno. Gesti che ledono la dignità della donna ma anche non sono invasivi, non creano un trauma. Pensare di ridurre fino a due terzi la pena per un marito che per anni violenta la moglie è inaccettabile. Così come trovo assurdo che se la donna non grida o non si sottrae fisicamente alla violenza subita, si possa parlare di consenso implicito”.
Problema culturale?
“Assolutamente sì. Fin da piccoli respiriamo pregiudizi di genere e le donne ne sono intrise quando gli uomini. E così una parte della magistratura, spero minoritaria, resta convinta che la vittima di violenza sessuale debba dimostrare, molto di più della vittima di una rapina, la propria credibilità. Sono aberrazioni”.
L’essere donna le ha anche ostacolato la carriera?
“Non sono stata ostacolata ma così come in altri settori professionali, l’essere donna impone un confronto continuo con il proprio interlocutore, al quale siamo sempre costrette a dimostrare di contare, di essere le migliori, di essere in grado di faticare di più, di riuscire a conquistarci le cose. Le donne partono da uno svantaggio culturale, sempre e comunque”.
Ci faccia qualche esempio concreto…
“Di recente, mi sono trovata a dover giudicare una serie di persone arrestate durante la notte. Prima di entrare in aula, alcuni di loro hanno chiesto ai carabinieri chi fosse di turno: ‘Un giudice o una donna?’. Stessa cosa durante un interrogatorio con un trafficante di rifiuti camorrista a Poggio Reale: mi accorsi subito che per lui non ero nessuno, che potevo anche esercitare il massimo del mio potere, ovvero privarlo della libertà, ma non mi avrebbe mai riconosciuta nel mio ruolo istituzionale”.
Lavoro e famiglia: un altro tasto dolente. Qual è la sua esperienza?
“Sono separata, ho due figli adolescenti. Non ho mai ritenuto che venissero dopo il mio lavoro ma, ancora una volta, ho dovuto tenerli fuori dalle aule di giustizia, come se non esistessero. Magari mia figlia aveva la febbre 40, magari venivo da una notte in bianco ma ho sempre pensato che parlarne potesse minare la mia credibilità. Sbagliato, ovvio. Quando percepisci una questione sociale come quella della maternità come un problema strettamente privato, capisci quanti pregiudizi ci siano ancora da combattere”.

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