“Volevo informarvi che il 31 dicembre è nato Cesare: è piccino, è nato di 1,415 Kg ma sta benissimo, deve semplicemente crescere! Tutto lo staff del centro di terapia intensiva del reparto di neonatologia, dove Cesare rimarrà per un po’, è stupito di quanto Cesare sia così vigoroso e vivace nonostante le piccole dimensioni e la nascita prematura. Io e mio marito volevamo ringraziarvi di cuore, perché siete stati fondamentali per questi primi giorni di vita del nostro bimbo: grazie all’ossigenoterapia è nato in forze e ha reagito benissimo nell’incubatrice, tanto è che è completamente autonomo in tutto”.
Questa mail è arrivata da Erika al Centro Iperbarico di Ravenna. Un’occasione più che mai concreta per parlare di ossigenoterapia iperbarica in gravidanza. Un’opportunità che viene proposta in diversi casi e sempre in accordo con il ginecologo che segue la donna, come spiega il direttore sanitario Pasquale Longobardi. Ma qual è il concetto di base? “Il feto ha una quantità di liquidi elevata rispetto alla propria superficie corporea. La placenta, in condizioni normali, ossigena in modo efficiente il feto. Ma può succedere che si verifichi uno scompenso tra la domanda del bambino e l’apporto di sangue che la madre riesce a fornire. Cosa che manda il feto in sofferenza: ecco, allora, che l’ossigenazione iperbarica, cioè sotto pressione, può risolvere la situazione, a beneficio del bambino”.
Il caso più estremo riguarda l’intossicazione della madre da monossido di carbonio: “Se per cause accidentali c’è un avvelenamento del sangue della madre, l’emoglobina non è più in grado di trasportare l’ossigeno. Ogni 23 minuti di camera iperbarica equivalgono a una eliminazione del 50 percento di monossido. All’aria, al contrario, servirebbero otto ore. Otto ore durante le quali il feto continua a subire danni”. L’ossigenoterapia, in questo caso, scongiura il sopraggiungere di malformazioni più o meno gravi.
Ma ci sono altri casi in cui mandare una donna incinta in camera iperbarica sortisce effetti più che positivi. Uno di questi è quando si verifica un’insufficienza placentare (a volte in concomitanza con minacce d’aborto), soprattutto in donne con problemi cardiaci, respiratori, pressione alta, diabete: “Uno studio effettuato su 250 mamme nei primi anni Ottanta – spiega Longobardi – ha dimostrato come 245 siano arrivate al parto in buone condizioni”. In questi casi si lavora con protocolli sperimentali, insieme al ginecologo di fiducia delle donne, stilando un vero e proprio piano di controlli e monitoraggi e mandando la mamma a 5 metri di profondità circa, in una camera attrezzata apposta per lei. I bambini, poi, vengono seguiti fino al compimento dell’anno: “Alla nascita, in genere, hanno indici di Apgar elevati”.
E l’ossigenoterapia iperbarica torna utile anche come preparazione al parto per donne con fattori di rischio quali età avanzata, precedenti cesarei o parti gemellari: “La nostra esperienza ha registrato una ventina di mamme che intorno alla 32esima settimana, che è il periodo nel quale la placenta invecchia ma nel quale si sta completando la formazione del sistema nervoso centrale del bambino, hanno scelto di andare in camera iperbarica, migliorando così la frequenza respiratoria e cardiaca, i parametri chimici del sangue, l’attività motoria del feto, gli ormoni della placenta”. Non solo: quella sorta di “ginnastica” al quale il pancione viene sottoposto oscillando tra i quattro e i sei metri di profondità, e che va ad agire sull’utero, favorisce un travaglio migliore.
Temi, questi, ancora poco conosciuti in Occidente: “Nei Paesi dell’Est, dove si lavora con un approccio pratico e non con una medicina basata sulle prove di evidenza, tutto ciò è ampliamente sperimentato. Con ottimi risultati”.
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