Nobraino foto tour_credit Andrea Domeniconi
I Nobraino. Néstor Fabbri è il primo da sinistra

Appena capirà il carattere del suo bambino di sedici mesi Alexei (detto Aliosha, onore a Dostoevskij), Néstor Fabbri gli suggerirà di fare sempre la cosa giusta, pur sapendo che a volte c’è un prezzo da pagare. Alto o basso che sia. Solo così, forse, chiuderà il cerchio della “mega incomprensione” o dello “scandalo” (è ancora difficile, per lui, trovare una definizione) che hanno visto come vittima i Nobraino, la band folk rock e indie rock di Riccione di cui è il chitarrista. Mentre spinge il passeggino ci racconta di “Migrazioni, diseguaglianze”, l’evento in programma oggi alle 19 nell’aula D di via Centrotrecento a Bologna. Néstor è stato invitato agli studenti dell’Università di Bologna per raccontare tutti i retroscena e le implicazioni della polemica sollevatasi un mese fa dopo la sua frase – evidentemente ironica – che equiparava i naufraghi del Mediterraneo a mangime per i pesci.
Néstor, siete stati accusati di razzismo, in una notte vi hanno annullato quattro concerti, tra cui quello del primo maggio a Taranto. Come avete vissuto questo attacco frontale?
“Da un lato bene, perché significa che forse qualcosa sta cambiando, si sta muovendo. Dal lato emotivo male, siamo rimasti storditi dagli insulti e dalle minacce di morte. La gente non aveva la più pallida idea di chi fossimo, nessuno si è preso la briga di andare a vedere il nostro curriculum né il mio impegno nel campo della protezione internazionale dei diritti umani, sia come studente che come volontario”.
Era la prima volta che ti esprimevi in maniera provocatoria e ironica sull’argomento migrazioni?
“Assolutamente no. Sono anni che scrivo frasi provocatorie ogni volta che c’è uno sbarco. Mi piace andare a riprendere gli articoli di qualche anno prima per verificare come le ‘tragedie’ vengano sempre descritte con le stesse parole e gli stessi toni. Come fossero un’emergenza non prevedibile. Nessuno, però, si è mai scandalizzato davanti alle mie parole. Questa volta è partito un linciaggio popolare estremo”.
Colpa dei social, di Internet?
“Credo di no, credo che sarebbe successo anche nel Medioevo. Mi immagino il bottegaio che vede passare una schiera di persone armate di forcone, pronte ad andare a uccidere uno che, per solo sentito dire, non si è comportato bene. Il bottegaio impugna il forcone e si unisce alla massa, senza chiedersi il perché di quella spedizione”.
Che insegnamento si può trarre dalla vostra vicenda?
“Qualcosa che in realtà sapevamo già. Che l’argomento immigrazione è spesso strumentalizzato, pasticciato. Prendiamo le tragedie in mare. Sembra ci sia un numero soglia sotto il quale la morte delle persone non ha valore e non merita di essere raccontata: si dà conto solo di quelle con centinaia di affogati. Stesso discorso per le parole, appositamente confuse: per l’ong SOS Racisimo di San Sebastián, nei Paesi Baschi, ho fatto tempo fa un lavoro incentrato sulla differenza tra tratta degli esseri umani e traffico di essere umani: nel primo caso parliamo di sfruttamento finalizzato alle peggiori cose, come il traffico di organi. Cosa che può avvenire anche in un quartiere di Rimini e per la quale, quindi, non è necessario oltrepassare le frontiere. Nel secondo caso stiamo parlando della violazione di una legge amministrativa. Ora, poi, nel calderone, ci è finito pure l’Isis. E la confusione continua”.
Sul vostro sito hai scritto un post di scuse: perché scusarsi sapendo di non avere torto?
“Perché la violenza che ci è stata fatta ci ha fatto sentire in obbligo di scusarci di cose mai fatte né pensate. Ma le scuse erano rivolte a chi si occupa di protezione internazionale dei diritti umani, a quel lui o quella lei che si sono sentiti in qualche modo colpiti. Non erano rivolte alla gente che ha male interpretato. Siamo stati vittima di un processo che non hanno fatto nemmeno alle Brigate Rosse. Un processo senza possibilità di difesa”.