Alessandra, il tuo interesse per l’argomento è stato più da genitore o da giornalista?
“Da entrambi i punti di vista. Di sicuro il fatto di essere madre di un pre-adolescente mi ha trascinata verso questa ricerca. Ho ragionato sul fatto che l’alcol è la prima sostanza psico-attiva che mio figlio troverà sulla sua strada: perché è accessibile, economico, a disposizione sia in casa che al supermercato. E nella nostra cultura è qualcosa che fa rima con divertimento, con piacere”.
Non dev’essere stato facile fare in modo che i ragazzi e le ragazze che hai incontrato si aprissero…
“Ho usato due espedienti. Il primo è stato incontrare giovani il cui tramite fossero persone che conosco. Ragazzi, dunque, che mi incontravano per la prima volta e che sapevano che non mi avrebbero rivista: una strategia che li ha molto aiutati a entrare in confidenza con me. Il secondo è stato ascoltarli molto e parlare poco: cosa che in generale, presi dall’ansia da predica i genitori fanno di rado”.
“Ce ne sono parecchi. A me inquieta sempre la parola ‘allarme’ che in questo caso viene spesso utilizzata. Quando, poi, sento parlare di ‘allarme giovani’, mi si rizzano almeno un paio di antenne. Per non parlare dell”allarme giovani sostanze psicoattive’: tutti i sensi, a questo punto, si mettono allerta. Durante l’indagine ho appurato che è sbagliato dire che tutti i ragazzi bevono. Sotto i 18 anni il 44% di loro non beve. Tra gli 11 e i 15 anni, non beve il 90% di loro. Bisogna invece dire che bere è una scelta, che l’alcol non si subisce, che ti viene proposto in tutti i modi ma tu puoi opporre resistenza, sviluppare un pensiero critico, essere figo senza farvi ricorso. Continuare a descrivere i giovani come quelli che si ubriacano e stramazzano è controproducente: è come se assegnassimo loro un destino già certo”.
“L’adolescente che beve è qualunque dei nostri figli. Non è il soggetto border line. Anche nella fascia grave, che alza il gomito di continuo, ci sono i nostri figli. Il ragazzo che beve è tra noi, non ha tre orecchie, non è stigmatizzabile in nessuna figura particolare”.
“Sicuramente contesti di povertà economica, educativa ed emotiva possono essere fattori di rischio. Nell’emarginazione sociale è facile che l’alcol scorra a fiumi: è evocativo il fatto che sia liquido, che in assenza di argini non smetta di fluire. Ma non è sempre detto che dietro ai ragazzi che bevono ci siano famiglie sfasciate. Così come non è detto che chi si ubriaca va male a scuola: Federico, sedici anni, ha una pagella strepitosa. Chiaro che, in presenza di ragazzi problematici e forme di poli-abuso, il basso rendimento scolastico è una spia del disagio”.
Racconti anche del 16enne Jacopo, astemio. Chi non si omologa ai comportamenti alcolici dei coetanei viene in qualche modo tagliato fuori?
“Purtroppo rimanere esclusi dal gruppo perché non si beve è qualcosa di comune. Molti raccontano di fare uso di alcol per puro piacere, perché ‘non scatta la serata se non c’è un bicchiere’. Ma a volte mi chiedo: tra adulti la serata scatta lo stesso senza vino? Ricordiamoci che i ragazzi ci guardano anche quando pensiamo che non sia così. La storia di Jacopo è tenerissima: è un ragazzo che ha faticato molto per essere accettato nonostante sia astemio. A volte il gruppo fa affidamento su di lui perché è l’unico sobrio o l’amico che ti soccorre. Ma il riconoscimento della sua scelta non è automatico. La sua vicenda mi fa pensare all’importanza di parlare dei ragazzi in positivo, non solo quando fanno bravate e incidenti”.
Il fatto che il divieto di somministrazione di alcolici ai minorenni non venga sempre rispettato ti fa credere di più nell’importanza della repressione o della prevenzione?
“Dal 2012 esiste una legge che vieta la somministrazione di bevande alcoliche ai minorenni. Se funzionasse, non saremmo qui a parlare dell’argomento. Dall’altro lato sfido qualsiasi madre o padre a dire ai figli di non bere riuscendo a farsi obbedire. Non sono certo io a dire che la repressione non funziona. Ma mi affascina più un altro discorso, quello del porre limiti e dare regole. Il mio libro, alla fine, vuole essere un richiamo al ruolo di genitore: possiamo anche indossare le stesse scarpe e guardare gli stessi film dei nostri figli ma non dobbiamo mai essere loro amici. Bisogna fortificarli ed essere per loro autorevoli, affettuosi, presenti. Bisogna dialogare e contrattare. Un lavoro estenuante ma che ci spetta in quanto adulti. Poi sono d’accordo sul fatto che la famiglia non possa avere in mano la responsabilità di tutto: lo stesso atteggiamento devono tenerlo le scuole e gli enti locali. Io credo molto all’educazione, soprattutto a quella tra pari. L’esperimento dello psicologo Bruce Alexander mostra che, se lasciati soli, i topi chiusi in gabbia preferivano l’acqua arricchita di droga a quella semplice. Ma se messi in compagnia di altre cavie e di giochi, sceglievano l’acqua senza droga. L’antidoto alle dipendenze, insomma, non è la sobrietà ma la relazione umana”.
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