Teresa dopo il suicidio del figlio: “Ecco come sono sopravvissuta”

Teresa Manes
Teresa Manes

“Se mi guardo indietro, non riesco a capire come posso avercela fatta”. Teresa Manes è la mamma di Andrea Spezzacatena, il 15 enne che il 20 del novembre 2012 si impiccò con una sciarpa nella sua casa di Roma, perché vittima di bullismo. Dopo aver scritto “Andrea oltre il pantalone rosa” (Graus Editore) e aver fondato l’Associazione italiana prevenzione bullismo, Teresa è uscita da qualche giorno in libreria con “Punto, a capo. La vita dopo il suicidio di mio figlio” (Erickson), dove racconta come ha fatto i conti con l’assenza, accettato la perdita, superato il senso di colpa.
Teresa, la paura d’impazzire l’ha tenuta, di fatto, lontana dalla pazzia. Sembra un paradosso. E invece?
“Il dolore per la perdita di un figlio, oltretutto suicida, è indicibile. Agli altri se ne può dare solo una minima percezione: si viene travolti e descriverlo è impossibile. Anche perché non c’è solo la parte emotiva ma anche quella fisica: ricordo che all’inizio i suoni mi arrivavano alterati, così come la sensazione di caldo e di freddo. Scompensi che mi mettevano in allarme, facendomi capire che stavo andando verso qualcosa di molto pericoloso, dal quale mi sarei dovuta tenere alla larga: il desiderio di lasciarmi morire andava di pari passo con la necessità di restare in vita”.
Nel libro parla del senso di colpa – identificato con una fastidiosa vocina – che per molto tempo l’ha attanagliata, pensando di non aver fatto abbastanza per prevenire la morte di Andrea: è riuscita a lasciarlo definitivamente alle spalle?
“Il senso di colpa mi ha costretta a sedermi per imparare a distinguere il pensiero razionale da quello irrazionale, per riappropriarmi del tempo e dello spazio e ascoltarmi dentro. Non ne sono ancora libera, questo no. Ma ho la maturità per lasciarlo andare via quando torna a bussare”.
Products-LIBRO_978-88-590-1002-9_X510_Punto-a-capo-CopertinaWeb-COP_Punto-a-capo_590-1002-9Andare al cimitero davanti alla lapide di suo figlio, per lei, non è mai stato né un rito necessario, né un antidoto al dolore. Ha ricevuto critiche, per questo?
“Moltissime. Chi sopravvive deve sempre fare i conti con il giudizio di chi crede che la cura di una madre superi addirittura i confini della morte. Non è il lumino davanti alla foto che consola l’anima. Quel lumino potrebbe anche spegnersi e l’anima resterebbe lo stesso martoriata dal dolore”.
Daniele, il suo figlio più piccolo, è stato un’ancora di salvezza o un tormento in più per la paura di non riuscirgli a fare da madre?
“Dopo la morte di Andrea, per me è stato necessario ritornare alla ragione, occuparmi di me stessa per non impazzire davanti alla disperazione e a tutte le considerazioni che venivano fatte sui motivi del suicidio di mio figlio. Solo così sono poi riuscita a esserci nuovamente per Daniele, a fargli da madre sana e giusta. Altrimenti, sarei stata una donna buttata in un letto, imbottita di pasticche e incapace di reagire. Oggi Daniele mi guarda con occhi di stimolo: la migliore ricompensa che potessi avere”.
Si sente una mamma diversa, oggi?
“Forse sono un po’ più attenta. Ma non mi sono fatta sopraffare dalle paure, che sarebbero diventate fobie. Se Daniele usa i social o manda un messaggio su WhatsApp, non mi faccio prendere dall’ansia e dalla smania di controllo”.

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