“E adesso arrangiati”. L’impressione della 33enne M.A. è che la comunità per tossicodipendenti che ospita suo marito le abbia detto proprio queste parole. Tutto è successo un mese fa quando l’uomo, a causa di una ricaduta nella tossicodipendenza, dopo un mese di ricovero in una clinica è stato spedito nella comunità. E da allora è stata “abbandonata” a se stessa, senza un lavoro, con due bambini di nove mesi e tre anni.
M.A. vive in un appartamento alla periferia di Ravenna e il suo è un disperato appello affinché le altre donne e mamme nelle sue condizioni possano ricevere una forma di sostegno per andare avanti: “Mio marito ci ha salutati il 21 aprile. Non lo potremo sentire né vedere fino alla fine dell’anno. Possiamo comunicare solo tramite lettera. Con il suo datore di lavoro ho parlato più volte, anche lui è dell’idea che mio marito debba per il momento stare in malattia per disintossicazione, di modo che io possa continuare a disporre del suo stipendio, anche se decurtato. Ma di recente mi hanno comunicato che a partire dal 30 giugno verrà messo in aspettativa. Abbiamo 1.100 euro di spese fisse mensili tra la rata dell’auto, il mutuo e un finanziamento. Come farò ad andare avanti?“.
Per ora M.A. ha trovato supporto nella famiglia e negli amici: “I miei genitori lavorano a tempo pieno, fanno quel che possono. I vicini mi portano le mele o quel che mi serve. Il parroco che mi ha sposata pagherà la retta della scuola materna per mia figlia, di modo che io possa cercarmi un lavoro. Un’amica mi consentirà di far frequentare il nido gratis al mio bambino più piccolo. Nella sfortuna della situazione in cui mi ritrovo, almeno posso contare su chi mi vuole bene. Ma le istituzioni e il mondo delle associazioni, in casi come il mio, dove sono? Una mamma nelle mie condizioni e i suoi figli interessano a qualcuno?“.
M.A. ha deciso di anticipare l’iscrizione dei figli all’asilo per andare a raccogliere la frutta quest’estate in campagna: “In assenza totale di tutele, ho deciso di rimboccarmi le maniche. Non posso certo aspettare il momento in cui non avrò più niente da dare da mangiare ai miei figli. Anche perché non ho certezze rispetto a quello che accadrà dopo questi otto mesi”.
Quando due anni fa M.A. si è sposata, sapeva benissimo che il marito aveva avuto problemi con la cocaina in passato: “Da giovanissimo è stato in comunità per cinque anni. Poi, quando è uscito, ha trovato un ottimo lavoro. E quando abbiamo iniziato a frequentarci, io ero tranquilla. Dopo la nascita della nostra prima figlia, però, ha iniziato ad avere comportamenti strani, a prendere ogni sera impegni. E poco a poco ho capito. Fino a che ho iniziato a trovare le dosi in giro per casa e ho scoperto che è riuscito a spendere oltre 10mila euro in un anno per la droga. Mi dico ogni giorno di rimanere calma. Ma nulla mi vieta di pensare alla richiesta di annullamento del matrimonio, più avanti. Sono giovane e ho tutto il diritto di rifarmi una vita un giorno, e anche di risposarmi in Chiesa se lo vorrò, visto che sono molto credente”.
Solo prima dell’ingresso in comunità M.A si è sentita in qualche modo coinvolta: “Ho accompagnato per qualche tempo mio marito ai gruppi di auto-mutuo-aiuto. Ma poi, presa la via della comunità, non ho più ricevuto nemmeno una telefonata per sapere come stiamo io e i bimbi. Oltre alla fatica di gestire due figli da sola e la terribile prospettiva di non avere presto più mezzi per andare avanti, mi sento del tutto lasciata a me stessa. Non è colpa mia se mio marito ha ripreso a drogarsi. Ditemi, di che morte devo morire?”.
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