Risate, schiamazzi, corse in corridoio. Flebo, teste pelate, chemioterapia. “Ecco, li vedi? Questi sono i bambini con il cancro. Non si direbbe, vero?”. Lo dice senza il peso dell’abitudine Roberta Pericoli, responsabile dell’Oncoematologia pediatrica dell’ospedale “Infermi” di Rimini, dove vengono centralizzati i minori malati di tumore della Romagna.
Al momento i piccoli ricoverati sono circa 40, di cui sei nella degenza ordinaria e gli altri in regime di Day Hospital. La fascia più colpita, in generale, è quella che va dai due ai dieci anni anche se, a seconda del tipo di malattia, l’età può variare anche molto: “I tumori ai muscoli e alle ossa, per esempio, colpiscono di più gli adolescenti, mentre neuroblastoma, i tumori renali e alla retina, legati spesso a fattori ereditari, riguardano maggiormente i bimbi sotto i due anni”.
La malattia più seguita, a Rimini, è la leucemia, che è anche il tumore più frequente nei bambini. Al secondo posto, invece, ci sono i linfomi: “Nelle statistiche generali, invece, troviamo i tumori del sistema nervoso centrale di cui, però, in assenza di una struttura di neurochirurgia pediatrica, noi al momento non siamo in grado di farci carico”.
Non è semplice, infatti, allestire un reparto adatto ad accogliere patologie così estreme e allo stesso tempo a umanizzarlo e renderlo a misura di bambino e famiglia: “Gli ingredienti a mettere in campo sono tanti, a partire da un’enorme disponibilità personale da medici e infermieri, che devono essere in tutto e per tutto dedicati. Servono anche strutture separate, come nel nostro caso effettivamente è. La parte della degenza vede quattro stanze e una zona comune con divano e cucinetta, dove i genitori si ritrovano a volte per mangiare una pizza insieme: è un ambente dotato di particolari filtri che lo rendono a bassa carica microbica, visto che i piccoli ricoverati devono essere protetti dal rischio di contrarre altre infezioni apparentemente banali durante la chemioterapia, quando sono depressi dal punto di vista immunitario. Anche il day hospital è una zona separata e protetta”. Chiaramente, lo spazio non è mai abbastanza: “Ma non possiamo lamentarci. L’anno scorso siamo riusciti a trasformare la degenza giornaliera, di fatto, in un asilo dove i bimbi giocano e si trovano a loro agio”.
I dati, fortunatamente, non sono a segno più: “Qualche anno fa avevamo avuto l’impressione che l’incidenza fosse in crescita. In realtà, i nostri bambini aumentano perché siamo un centro di riferimento, tutto qui. I casi, nei minori, restano 140 per milione ogni anno, con oscillazioni più o meno forti. In certe annate ne vediamo venti, in altre trenta o quaranta. Non sono ancora noti i fattori che determinano queste variazioni”.
Molta attenzione, in reparto, viene data alla presa in carico della famiglia intera, quando arriva la terribile diagnosi di cancro: “Quando il bimbo si ammala, si ammalano con lui anche genitori, fratelli, sorelle e nonni. Abbiamo una psicologa che affianca l’intera famiglia in tutto il percorso terapeutico del bambino e che organizza, anche in collaborazione con l’Associazione riminese oncoematologia pediatrica e l’Istituto oncologico romagnolo, iniziative di grande valore: abbiamo portato i bambini e le mamme nei parchi a giocare, organizzato pic-nic all’aperto in collaborazione con alcuni ristoratori, portato le mamme per un’intera giornata a rilassarsi in una Spa in un hotel a Cesenatico, mentre i papà sono rimasti con i figli. Vedere l’espressione rilassata e per qualche ora felice delle mamme ci ha fatto enorme piacere”.
Le associazioni di volontariato – tra cui anche l’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi (Ail) che ha messo in campo il programma di assistenza domiciliare – sono attive anche su altri fronti. Lo Ior, per esempio, per nove mesi ha finanziato un medico che ha affiancato la dottoressa Pericoli e a breve porterà in Oncoematologia pediatrica quattro poltrone dove far dormire le mamme che assistono i loro figli di notte, nella zona della degenza ordinaria. L’Arop mette poi a disposizione un appartamento per far soggiornare le famiglie che vengono da fuori: “Non è facile essere rigidi e dire a uno dei due genitori che deve uscire, soprattutto se non è di Rimini. Qui i ricoveri sono medio-lunghi. Anche quando i cicli di chemio prevedono che i bimbi restino con noi meno di una settimana, nel momento in cui tornano a casa arrivano gli effetti collaterali e sono costretti a rientrare. Con il risultato che rimangono diversi mesi”.
L’oncoematologia pediatrica è un ambiente dove nemmeno per il personale è così automatico riuscire a lavorare: “Dal punto di vista scientifico ci vuole un’enorme preparazione. Da quello umano, credo una predisposizione personale spiccata. C’è una selezione naturale: chi, questo mestiere, non sente di poterlo o volerlo fare, non lo fa. Bisogna essere portati a interagire con situazioni emotivamente molto critiche”. E lo si percepisce fin dal momento in cui i medici devono comunicare alla famiglia la diagnosi: “Quella è la fase dello choc, della disperazione massima. La famiglia viene informata e si paralizza: da quel momento non arriva più alcun messaggio, se non quello della malattia. E vengono messe in campo una serie di problematiche che poi, poco a poco, scemano: da ‘come farò con il lavoro?’ a ‘come porterò l’altro figlio a scuola’. Questioni che poi trovano una soluzione organizzativa quando iniziano le terapie e la famiglia, alle prese con l’accettazione o la negazione della malattia, entra nel nuovo stile di vita e inizia il viaggio verso una nuova vita. Un percorso che a un medico, devo ammettere, dà davvero grandi soddisfazioni”.
Così come le dà il fatto di vedere ex pazienti iscriversi a medicina, da grandi, “per rendere il favore” e chiedere di fare la tesi in reparto: “Sono storie che toccano da vicino, come tutte del resto. Quando i bambini arrivano qui, diventano parte della mia vita. Scavano un solco nella memoria quelli che hanno dovuto affrontare più difficoltà degli altri per arrivare alla soluzione. O i pochi che, purtroppo, non ce l’hanno fatta”. Dipende dall’età dei bambini e dal fatto di “essere riusciti a curare l’intera famiglia”, infatti, la possibilità di dimenticare la malattia: “Alcuni dei bambini che tornano da noi per il follow-up non si ricordano quasi nulla. I più grandi, invece, hanno ancora in mente il dolore, la paura, la caduta dei capelli, l’isolamento. Ma quando vedi che si sposano, hanno figli, fanno il lavoro che vogliono, capisci davvero che hanno superato la malattia. Come se non l’avessero mai avuta”.
Del resto, le percentuali di guarigione sono molto alte: “Soprattutto sulle leucemie, otto bimbi su dieci ce la fanno. La chemioterapia, in questo senso, ha dato la svolta rispetto a trenta o quarant’anni fa. Oggi, addirittura, i protocolli hanno ridotto i carichi terapeutici, arrivando comunque alla guarigione. Siamo arrivati a stupirci quando un bambino non ce la fa. Del 20% con recidiva, la metà viene recuperata grazie al trapianto di midollo osseo, per cui il nostro centro di riferimento è al Sant’Orsola di Bologna. Sono casi rari, noi non mandiamo più di uno o due pazienti all’anno”.
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Commenti:
un reparto straordinario Oncologia Pediatrica di Rimini, dove lavorano delle persone che superano l’eccellenza a 360 gradi !!!
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