“I terrible two a casa nostra non sono arrivati”. Le ultime (mie) parole famose risalgono a circa tre mesi fa, quando il piccolo ha soffiato le due famose candeline. Per carità, ora parla, non ha più il pannolino e dorme finalmente (lo dico o non lo dico?) tutta la ….. (non lo dico).
Ma se imparassi, qualche volta, a non cantare vittoria sbilanciandomi troppo sui successi della sua crescita, sarebbe buona cosa. Infatti i due anni, con il loro carico di capricci e scenate, hanno bussato alla porta poco dopo la tappa anagrafica. Si potrebbe riassumere il tutto con un concetto semplice: è l’età alla quale vogliono fare sempre e comunque quello che pare loro. La stessa in cui tutto finisce sul tavolo della trattativa (con conseguenti ricatti e minacce, non me ne voglia la mia amica Montessori): dal lavarsi le mani prima di cena a rimettersi le scarpe prima di scendere da un treno, dal correre in bagno a fare pipì quando sta ballando il tip tap perché non la tiene più a leggere 8 (e non 28) libri prima di dormire.
La cosa divertente, se proprio mi sforzo di trovarne una, è che il piccolo è super consapevole quando sta esagerando e degenerando. E le poche volte in cui riesco a restare impassibile, non alzare la voce a mia volta, inspirare ed espirare, contare fino a dieci e diventare buddista in due secondi, lui apprezza: finisce il suo teatrino, all’improvviso si zittisce e smette di dimenarsi e mi annuncia la conversione con “mamma, ho finito”.
Il problema sono io. Che l’80% delle volte la scenata non la reggo, perché mi attiva cortocircuiti neuronali terribili. E che mi fa abbassare al livello capriccio, così che a urlare diventiamo in due, cosa che se ci vedesse qualcuno direbbe che siamo pazzi. L’unico cuscinetto è l’ambiente. Se siamo fuori casa, come ieri che si è messo a correre in mutande nella scuola di musica della sorella mentre lei era a lezione e noi ad aspettarla, la modalità zen mi è certo più consona: mica posso mettermi a gridare più forte di lui con la platea davanti. Come alla cassa del supermercato, dove di prassi si scatena il macello e io, mentre inghiotto le grida che fanno a botte per uscire dalla mia bocca, attacco a sudare pesante. E quando esco tirando lui per un braccio e reggendo le buste della spesa con l’altro, ho i capelli che nemmeno Tina Turner.
Però covo una speranza. La speranza che si ripeta, forse per sangue o per osmosi del cognome, quello che è successo cinque anni fa, allo scoccare dei tre anni di mia figlia grande. Da un giorno all’altro non era più lei: diceva sempre sì, reagiva riflessiva a ogni richiesta. Mancano “solo” nove mesi, il tempo di una gravidanza. E non ho nemmeno le nausee. Ce la posso fare. Anche perché poi, alla fine, credo sia tutta una presa in giro. L’ho verificato quando mio figlio abusa di no.
“Metti a posto i giochi”.
“No”.
“Vuoi un biscotto?”
“No”.
“Ti piace la mamma?”
“No”.
“Sei bello come il sole”:
“No, sono BUTTO”.
Allora lo prendo in giro: “Sei troppo piccolo, non sai fare a dire sì”. E lo vedi a metà tra il senso d’offesa e il rigurgito d’orgoglio, che tira in avanti il petto e attacca a dire sì in modo compulsivo, costringendomi a un a infinito questionario a risposta chiusa.
“Ti scappa la cacca?”
“Sì”.
“Vuoi che ti mangi un leone?”
“Sì”.
“Ti piacciono i broccoli?”
“Sì”.
“Ti preparo un caffè?”
“Sì”.
“Sei brutto?”
“Sì”.
“Ti chiami Filomeno?”
“Sì”.
Allora guardo i miei libri di pedagogia dell’università. E non so se sia arrivato il momento di portarli in garage.
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