mestruazioni, donna“Non mi devo più preoccupare dei contraccettivi: tanto non ho più l’utero!”. “I miei figli mi chiedono continuamente ‘sei stanca mamma? Vuoi una tisana? Non preoccuparti, faccio io i letti'”. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse prevalentemente da rattristarsi, davanti alle testimonianze scritte dalle donne affette da patologie neoplastiche ginecologiche e in cura al Sant’Orsola di Bologna. “Perché non scrivi? Emozioni tra le righe” è il libro stampato dalla onlus G.O. for life – Associazione pazienti ginecologia oncologica e voluto da Lucia Polpatelli, la psico-oncologa che ha scritto di come comunicare di avere un tumore ai propri figli.
Dottoressa, che cosa accomuna le donne che hanno scelto di raccontarsi dopo il suo input nei gruppi terapeutici?
“Banalmente, direi la malattia. E con essa, la cascata di vicende emotive, oltre che fisiche, che ne conseguono. Sapere di avere un tumore modifica all’improvviso le aspettative e il percorso di vita. E sebbene sono lontana dalla visione sdolcinata secondo cui la malattia ci apre gli occhi rispetto alla bellezza di quello che avevamo, sicuramente ha un ruolo nel mettere a posto alcune caselle che non erano al posto giusto”.
Che clima si crea nei gruppi che lei conduce?
“Si creano alchimie incredibili. I gruppi sono contenitori magici in cui una donna si specchia nell’altra e trova strategie alle quali, prima, non aveva pensato. L’ospedale, a quel punto, non è solo il luogo del dolore ma anche di esperienze positive: certo, la scrittura, il teatro e la musicoterapia non fanno passare il cancro. Ma se migliorano anche solo un po’ la qualità della vita, ben vengano”.

Lucia Polpatelli
Lucia Polpatelli

Le testimonianze, per il suo lavoro, rappresentano un valore aggiunto?
“Io faccio un lavoro durissimo. Ma se insisto, è perché la benzina me la danno i pazienti. Regalandomi le loro storie, poi, ho il privilegio di poter ridimensionare tante sciocchezze della vita quotidiana”.
Ci sono delle tappe quasi obbligate, nella storie delle donne?
“Sì, ci sono passaggi standard. La malattia, che si stratifica sempre sopra la vita precedente delle pazienti, inizia con la diagnosi, che corrisponde a un congelamento emotivo. Poi subentrano la rabbia, il ‘perché proprio a me?’, il ‘cosa ho fatto di male??. Infine si va, si iniziano ad affrontare le cose, si naviga a vista attivando le proprie risorse. In questa fase, l’accompagnamento e il sostegno aiutano, soprattutto nei casi di grande solitudine”.
Nei racconti prevale l’ironia: è un atteggiamento che nota spesso?
“Non è comune ma c’è: non a caso nei gruppi si ride, ci si prende in giro. L’ironia è terapeutica, anche se intervallata da ‘up and down’ importanti”.
Una donna scrive come abbia dovuto imparare ad avere bisogno: la malattia oncologica, per il sesso femminile, ha un contraccolpo in più?
“Le donne passano la vita a fare ciò che piace agli altri e hanno un vero talento per il senso di colpa. Sono abituate a stare su più fronti, a fare le barricate per gestire tutto. Ho sentito alcune di loro dire ‘mi sono ammalata, finalmente mi riposo’ o ‘ho speso tutto il tempo a soddisfare gli altri, non so nemmeno cosa piace a me’. Con questo non voglio dire che la malattia sia un’opportunità, anzi. Non si dovrebbe certo arrivare a questo. Ma è una dinamica che riscontro”.