Serena Marchi
Serena Marchi

“Madre? Quale madre? Io non sono la loro madre. Io li porto solamente dentro di me per nove mesi. I genitori sono quelli che li cresceranno giorno dopo giorno. E poi quali traumi avrebbero rispetto ai miei figli, ai figli adottivi, ai figli affidatari, ai figli non desiderati, ai figli abbandonati? Sono desiderati, amati, coccolati, viziati. Secondo me hanno meno traumi rispetto a tutti gli altri”. Sono le parole di Holly, una donna americana di Indianapolis, una delle tante “surrogate” intervistate da Serena Marchi nel suo viaggio di 33.613 chilometri intrapreso per raccontare le donne che “prestano” l’utero a chi non può avere figli (coppie etero o omosessuali). Un viaggio scaturito nel libro “Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri” (Fandango) dove non manca il caso italiano di Regina Bianchi, che negli anni Novanta decise di “fare un regalo” alla figlia Novella, alla quale erano stati tolti l’utero e un ovaio dopo aver perso la bambina che portava in grembo.
Dagli Stati Uniti all’Ucraina, passando per il Regno Unito, che cosa accomuna le donne che ha incontrato?
“La scelta. Argomento che, dal dibattito italiano, resta sempre e puntualmente escluso. Sembra quasi che, a poter scegliere, possano essere solo gli uomini. Non solo: quando lo dico e lo ripeto, mi guardano come se fosse cosa non da non credere. Dietro la scelta ci sono mille motivi: tra le donne che ho intervistato c’è chi lo fa perché a sua volta ha vissuto la frustrazione di non poter avere figli, chi per auto-assolversi rispetto a un’interruzione di gravidanza fatta in passato, chi addirittura per fede, perché donare agli altri può far rima anche con portare il figlio per una coppia”.
Molto spesso viene avanzata l’obiezione sul fatto che le donne lo facciano per soldi. Nel libro, in realtà, emerge pochissimo…
“I soldi, per molte donne, non sono il vero motivo. In certi Stati, addirittura, non sono previsti compensi al di fuori della copertura delle spese mediche. Non solo: la maggior parte delle donne inizia a offrirsi da sé, cercando da sola le coppie interessate, senza un manager dietro. Solo in un secondo momento ci si rivolge alle agenzie specializzate”.
Che cosa la fa più arrabbiare tra le motivazioni di chi osteggia la gestazione per altri o gestazione di sostegno?
“L’idea che si possa decidere al posto di una donna che, per mille ragioni, vuole aiutare una coppia ad avere un figlio. Io ho 36 anni, un figlio nato dalla mia pancia, un marito. Se non avessi potuto diventare mamma, non sarei ricorsa alla surrogacy. Ma non è mio diritto impedire alle altre donne di farlo”.
copertina-definitiva-675x1024Sono stati proprio i detrattori a spingerla ad indagare meglio?
“Assolutamente sì. Sono una persone abituata a farsi tante domande e tanti scrupoli su tutto. Non mi azzarderei mai a dire che una cosa non si può fare, se prima non la conosco. Dall’uscita del libro, il 2 marzo, mi hanno accusata di non avere intervistato nessuna donna in Paesi come l’India o il Nepal, dove alcune donne vengono sfruttate per portare i figli per altri. Ma io sono la prima a dire che la schiavitù femminile è da condannare. In quei posti ci sono anche i bambini che cuciono i palloni per noi, c’è chi vende i propri organi. Io sono andata dove la libertà, almeno teoricamente, esiste”.
Emotivamente, com’è stato il lungo viaggio che ha fatto per indagare e capire?
“Molto forte. Ricordo il mio lungo pianto dopo l’incontro con Regina Bianchi, quello più toccante di tutto questo viaggio che ho compiuto in gran parte con mio marito e mio figlio. Sono ancora in contatto con Julia, canadese, che il 3 marzo, il giorno dopo l’uscita del mio libro, ha partorito la bambina che stava portando quando ci siamo conosciute. Lei è passata dal non riuscire ad avere figli ad averne per altri”.
Spesso, nelle storie delle surrogate, i mariti non hanno voce in capitolo. Altro segnale di indipendenza?
“Certo. Le donne incontrate mi hanno trasmesso grande fierezza, sicurezza, emancipazione. E sono tutte convinte che se porti un figlio in pancia, non è per forza tuo. Per quarant’anni abbiamo provato a scindere il concetto di gravidanza da quello di maternità e ora stiamo tornando indietro: credo sia un’offesa per tutte le mamme adottive e affidatarie”.

Serena Marchi presenterà il suo libro il 10 aprile alle 18.30 alla libreria Ubik di Bologna con il senatore Sergio Lo Giudice