L’Istat stima che 170mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni, in Italia, assistano un familiare adulto con disabilità. Una cifra enorme che secondo Licia Boccaletti, coordinatrice dei progetti europei e di ricerca sociale di “Anziani e non solo”, un’organizzazione attiva dal 2004, è addirittura sottostimata. L’esperta ne parlerà venerdì 5 maggio al Palacongressi di Rimini durante il convegno di Erickson “Super eroi fragili” dedicato all’adolescenza.. Nel suo intervento, dal titolo “Giovani caregiver: come supportarli in contesto scolastico ed educativo” porrà l’accento, soprattutto, su quello che la scuola può fare per riconoscere e sostenere quelli che appaiono come ragazzi invisibili.
Licia, perché in Italia non si parla quasi mai dei giovani caregiver?
“Per una lacuna culturale, prima di tutto. Si tratta di un tabù che stenta a infangersi. Con la ‘scusa’ che non è giusto né adeguato che un ragazzino si occupi di una persona anziana, disabile, con una malattia psichica o una dipendenza, si finisce per chiudere gli occhi di fronte a un fenomeno che invece esiste. Riconoscerlo non significa legittimarlo ma attivarsi per migliorarlo, dando voce ai bisogni di chi assiste”.
Nei Paesi anglosassoni, a differenza che da noi, qual è la situazione?
“Lì da tempo i giovani caregiver ricevono l’attenzione che meritano. Quando un servizio sociale o sanitario prende in carico un adulto malato o disabile, si accerta che in famiglia ci sia o meno un minore. In caso affermativo, vengono valutati il suo bisogno e l’impatto che la situazione ha sulla sua vita. Dopodiché scattano gli interventi di supporto sia sul fronte scolastico, con soggetti deputati a sostenere il ragazzo facilitandogli la vita e il percorso formativo, sia su quello aggregativo, con l’implementazione di servizi territoriali dove i giovani caregiver possono incontrarsi, socializzare, essere supportati psicologicamente. In Scozia esiste persino un festival di tre giorni, durante il quale i caregiver vengono sostituiti, nelle rispettive famiglie, da altre persone”.
Quali sono, al contrario, le principali conseguenze del mancato riconoscimento?
“Le poche ricerche esistenti sottolineano il rischio, per i caregiver giovani, di uno sviluppo psico-fisico non pieno, di problemi di ansia e depressione, per non parlare dell’isolamento rispetto al gruppo dei coetanei. L’altro tema importante è l’impatto negativo sul rendimento scolastico: spesso parliamo di ragazzi con risultati inferiori alle loro possibilità o che, nei casi più estremi, abbandonano la scuola per mancanza di tempo, motivazione, concentrazione. D’altro canto esistono casi di giovani silenziosi, obbedienti e pienamete calati nel ruolo: casi positivi che però evitando di farci vedere la realtà, portandoci a nasconderla e nagarla ancora una volta”.
Siamo anche di fronte a un vuoto legislativo?
“Sì, discorso che vale prima di tutto per gli adulti. Nel nostro Paese non esiste un riconoscimento formale del ruolo del caregiver. Per i minorenni la situazione si complica ancora di più. Quello che serve, al momento, è un’opera di sensibilizzazione, propedeutica anche ad agire sul piano locale, con iniziative ispirate a quelle anglosassoni: questi ragazzi, che spesso iniziano ad occuparsi dei familiari quando sono molto piccoli, hanno diritto a farsi una vita, un giorno”.
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