Serena Ballista: “Non abbiate paura di essere cattive madri”

Serena Ballista

Il sentimento materno è ambiguo. E c’è bisogno di parlarne per non rischiare di restare incastrate nel senso di colpa e inadeguatezza”: Serena Ballista ha 31 anni, due bimbe di quattro e mezzo e uno. A Modena, dove è nata e dove lavora come formatrice sui temi dell’educazione di genere e della prevenzione della violenza, presiede l’Udi. Ma è stata la sua prima figlia a farle sentire forte l’urgenza di scrivere “Cattiva madre” (Giraldi Editore), una raccolta di racconti che esplorano alcune delle tante sfaccettature dell’essere madre ma anche le aspettative sociali che le donne sentono arrivare dall’esterno e che a volte hanno pure dentro, giudicanti e critiche verso se stesse.

“Quando la mia prima figlia era piccolissima – spiega – ho iniziato a frequentare un corso di scrittura creativa serale che per me era un po’ la mia evasione dalla routine. Ed è lì, mentre mi riappropriavo del mio tempo, che è nato il primo racconto ‘A mani calde’, che trattando della morte in culla parlava un po’ di me, ovvero della mia più grande paura ma anche del mio desiderio di tornare a essere una e indivisibile, liberandomi del rapporto simbiotico che stavo vivendo con Mia. Un rapporto che da un lato mi stava nutrendo molto ma che, dall’altro, mi toglieva tempo e spazio. Ecco, attraverso la scrittura è come se avessi ucciso mia figlia per rimanere viva”.

E il fatto di sentirsi una cattiva madre, in preda a stati d’animo alterni e a una sensazione di essere fagocitata dal nuovo ruolo, ha consentito poi a Serena di proseguire con la scrittura: “I primi mesi con la mia bambina sono stati anche quelli di un’esperienza di allattamento molto gratificante. Ma non nego di aver provato una grandissima solitudine, di aver sentito spesso che la maternità mi stava privando di qualcosa. Pur nel mezzo del forte innamoramento che provavo per lei, i momenti di sconforto e noia non mancavano. In questo senso, il libro è nato da un innesto esplosivo tra vita e scrittura, consentendomi di accettare quella cattiva madre che era in me, di scendere a patti con lei e darle cittadinanza”.

Così i racconti di Serena sono diventati anche un atto di denuncia verso i canoni ai quali le donne e le madri sembrano doversi conformare per essere considerate tali o all’altezza: “I racconti sono anche una rivendicazione, un modo per dire che sono una mamma con desideri, miserie e fragilità che trascendono la maternità. Ecco perché considero questo libro, in parte, politico: la cattiva madre deve fare il suo debutto in società, l’ambivalenza del materno deve entrare nel dibattito pubblico. Io ho sempre pensato che mi sia stata taciuta una verità, che davvero poco mi sia stato detto del fatto che non sempre ci si sente grate e felici”.

In questo senso la cattiva madre non è che un’altra faccia della madre buona. Semplicemente, i suoi lati oscuri li tira fuori, affinché siano meno oscuri: “Esistono solo le madri che fanno con quello che hanno, per citare le parole di un mio personaggio. Il giudizio verso la madre deve cambiare, la letteratura che ne tratta deve avere più visibilità. Quando al parco vedo quelle mamme tutte dedicate ai figli, che non hanno altri argomenti se non i bambini, mi riempio di dubbi sulla loro autenticità: che donne sono state prima di averli? Davvero si sono realizzate solo nella maternità? Ho l’impressione che non possa essere così“.

Al tempo stesso, chi sceglie di non diventare madre non deve più – secondo Ballista – essere colpevolizzata: “Quando si parla di calo demografico, si punta implicitamente il dito contro le donne che non fanno figli. Ma si dimentica che spesso, chi lo fa, si sottrae a un imperativo sociale con grande responsabilità. La stessa con cui certe donne decidono di diventare mamme”. A costo, a volte, di grossi sacrifici: “La famosa conciliazione è una chimera. Al massimo, alla conciliazione si può tendere, facendo alla meno peggio. Anche io ho vissuto sulla mia pelle la frustrazione di non poter più concentrarmi e studiare come prima, semplicemente perché il tempo non c’era più. Lavoro da casa e non ho orari fissi, è vero. Ma questo significa trovarsi davanti cl computer anche quando hai le bimbe a casa, nei momenti morti o quando vorresti e dovresti fare altro. Alle donne, di tutte queste rinunce, non si parla quasi mai”.

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