“Se c’è una diagnosi di autismo il nostro test non serve. E dico ai genitori di non richiederlo perché noi, per averlo, siamo dovuti andare in Inghilterra, e comunque all’interno di un progetto di ricerca”. Marina Marini, docente al Dipartimento di medicina specialistica diagnostica e sperimentale dell’Alma Mater, ha coordinato il gruppo bolognese nell’ambito di una ricerca realizzata dall’Istituto di Scienze Neurologiche dell’Università di Bologna (Irccs) interno al “Bellaria”, dall’Università di Warwick e dall’Università di Birmingham. Analizzando 38 bambini con un disturbo dello spettro autistico compresi tra cinque e dodici anni, è emerso come tutti abbiano uno stress ossidativo che causa alterazioni di alcune molecole (proteine o aminoacidi) e che quindi ci sia una base biochimica nella loro patologia.

(foto d’archivio)

Scoperta che è solo l’inizio di un lavoro molto più ampio che Marini e i suoi vorrebbero intraprendere se trovassero i finanziamenti: “E’ stato dimostrato in modo incontrovertibile che in molti casi di autismo la base genetica non è sufficiente a spiegare o a far manifestare la malattia. Addirittura nel circa 65% dei casi non viene riscontrata una mutazione vera e propria ma piccole variazioni del DNA, nessuna delle quali da sola sarebbe patologica, sulle quali si innestano fattori ambientali scatenanti. Quello che è certo è che, fino a pochi anni fa, nessuno si aspettava che c’entrasse lo stress ossidativo, ovvero il fatto che le specie radicaliche siano in eccesso rispetto agli enzimi preposti a combatterle”.

Le molecole alterate, nell’autismo, sono una quindicina su cinquanta: “Ora abbiamo un algoritmo, che è poi il test di cui si è parlato, che in effetti potrebbe aiutare a diagnosticare i disturbi dello spettro autistico ben prima di quanto avvenga oggi, ovvero tra il secondo e il terzo anno di vita. Questo ci può aiutare su vari piani: ad attivare programmi educativi precoci, a far sì che anche i medici meno esperti possono arrivare alla diagnosi ma soprattutto, in futuro, a valutare l’effettivo impatto di alcune cure palliative sui biomarcatori”.

Chiaramente la strada è ancora lunga: “Vorremmo poter ampliare il campione che abbiamo esaminato ma sopratutto fare confronti con altre patologie come l’epilessia e il deficit d’attenzione per capire se qualche biomarcatore è specifico solo dell’autismo. Nei nostri sogni c’è l’idea di tentare la strada dei trattamenti nutraceutici per valutare se migliora la sintomatologia e se i biomarcatori tendono a normalizzarsi. Questo ci aiuterebbe a capire le basi biologiche di una patologia così complessa e aprirebbe forse la strada a terapie più efficaci” .

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Autism.