Faenza, la maestra torna in piazza: “Bambini privati della scuola, non ci sto”

“Non lo so se i bambini hanno sofferto, del resto c’è chi è più protetto e chi meno. Ma so per certo che sono stati privati di qualcosa”. Marina Marri da quindici anni insegna alla scuola dell’infanzia Charlot dell’Istituto comprensivo Carchidio-Strocchi di Faenza. E proprio a Faenza, il 23 maggio, è scesa in piazza per la manifestazione “Priorità alla scuola”, così come lo farà oggi, per il secondo round della protesta, alle 18 (sono sessanta, in contemporanea, le città coinvolte). Ancora una volta la sua voce tornerà a chiedere che a settembre la scuola sia in presenza, in sicurezza e tempo pieno.

“Io non sono arrabbiata, sono offesa – spiega Marri -. Chi sta prendendo decisioni sulla scuola evidentemente non sa che cosa significhi educare. Del resto non interessa avere un popolo che si interroga, che si fa domande. Mi sento offesa anche dal fatto che la scuola dell’infanzia sia considerata una sorta di servizio assistenziale, non un luogo dove si cresce e si diventa cittadini: una visione distorta che a me, che ho scelto di lavorare con la fascia di età 3-6 anni per la libertà di sperimentazione, urta parecchio”.

Anche l’autonomia scolastica invocata dal Ministero come strumento per gestire la complessità del rientro a settembre, secondo Marri, lascia il tempo che prova: “Puntare a una mera autonomia organizzativa non ha senso, l’autonomia a scuola è tante cose: didattica, di ricerca, di sperimentazione. Ma ancora una volta, questi concetti non vengono valorizzati. Insomma, in vista del rientro sono preoccupata, allarmata: siamo davanti a un’usurpazione delle parole alla pedagogia e alla scuola vera, si parla a vanvera, nelle varie indicazioni, di comunità educante, di bisogni dell’età evolutiva. Stiamo andando, secondo me, verso una cultura del silenzio che non rispetta i cittadini italiani”.

Nei mesi scorsi, insieme alle colleghe, Marri ha scelto una didattica a distanza senza didattica e senza video: “Con i bambini ci siamo mandati lettere per poste, con le famiglie ci siamo scambiati piccoli giochi da realizzare e letture vocali registrate o trascritte. Abbiamo puntato su come ci sentivamo, su cosa provavamo, ci siamo concentrati sulle immagini, i disegni, le parole. La nostra intenzione non è stata mai quella di riempire dei vuoti che non si potevamo colmare, né tantomeno di avviare pratiche invasive. La scuola, del resto, sta da un’altra parte”. 

 

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