Parentali, la pedagogista: “Non basta fuggire dalla scuola tradizionale, serve consapevolezza”

«La scelta va fatta con consapevolezza, non ci si può solo limitare a una fuga dalla scuola tradizionale senza interrogarsi sui motivi reali di quella disaffezione e su quale strada si voglia intraprendere». Cecilia Fazioli, pedagogista e co-fondatrice di una scuola parentale nel Faentino, è in libreria con «La scuola parentale. Come farla diventare una vera opportunità formativa per bambini e ragazzi» (Terra Nuova), un testo lontano da ogni ideologia che, anzi, invita tra le righe a non improvvisare: «Ho sempre insistito, e lo faccio anche nel libro, sul fatto che il percorso debba essere costruito con consapevolezza. Soprattutto in questo periodo c’è chi è ricorso a estremi rimedi con il fai-da-te e ha messo in piedi situazioni sotterranee che rischiano di confondere le cose. Le scuole parentali vivono grazie all’impegno di tanti attori che lavorano all’insegna della co-responsabilità. Bisogna, dunque, essere più che convinti e avere, alla base, un progetto solido».

L’aspetto più importante, in questo senso, per Fazioli è la costruzione del gruppo: «Navigare nell’incertezza rischia di compromettere i progetti. Occorre, dunque, che ci si conosca bene, che si instaurino buone relazioni, che si crei coesione. La scuola parentale è a tutti gli effetti una creatura che richiede la capacità di cooperare e sapersi ascoltare: aspetti ai quali siamo oggi poco abituati e che vengono prima di quelli legali, amministrativi e legati alla ricerca di un luogo fisico dove realizzare il progetto».

A legare le varie esperienze che esistono, in assenza comunque di un modello omogeneo, è un pensiero educativo che parte da una visione olistica della persona: «Non ci si concentra solo sulla didattica in sé ma su un’attenzione globale al bambino nella quale entrano anche le questioni ambientali e alimentari, tanto per fare un esempio». Inoltre, nella stragrande maggioranza dei casi l’approccio è esperienziale e l’ottica interdisciplinare: «Alla base degli apprendimenti c’è il fare, senza contare che lo spazio esterno è a tutti gli effetti considerato un prolungamento di quello interno e che la dimensione del piccolo gruppo consente di dedicarsi davvero ai bisogni, ai ritmi e ai tempi di ogni bambino o ragazzo».

Cecilia Fazioli

Nonostante, sul tema, le obiezioni persistano, anche in Italia qualcosa si sta muovendo, persino sulle fasce di età corrispondenti alle scuole medie e superiori: «Io cito l’esempio di Makula, nel Varesotto, nata proprio per chi ha tra gli 11 e i 14 anni. Ma esiste anche, a Gubbio, l’Officina del fare e del sapere, un’esperienza interessante che si ispira all’educazione diffusa di Paolo Mottana. Da quanto mi risulta non esistono scuole parentali per chi ha oltre 14 anni ma l’interesse sta nascendo». L’unica critica che secondo Fazioli è in parte fondata è quella che viene mossa contro il fatto che si tratti di progetti elitari e selettivi: «Si dice che siano scuole solo per chi ha certe possibilità economiche, che siano scollegate dal contesto e che sia quindi difficile, per esempio, incontrare compagni stranieri. Questo può essere condivisibile anche se si può rispondere che il sacrificio che una famiglia intende fare molto dipende dalle priorità che si è data, anche rispetto all’educazione dei figli. D’altro canto, i bambini e ragazzi con qualche certificazione, che spesso hanno bisogno di una modalità d’apprendimento diversa, nel modello parentale possono trovare un ambiente a loro più consono. Quanto all’obiezione sulla mancanza socialità, direi che è del tutto fuori luogo».

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