«Sono stata tra le ragazze che usavano le tute della nazionale dismesse dai maschi, che alloggiavano in posti assurdi. Sono stata una di quelle che alle sei del mattino andavano a correre, alle otto e mezza in ufficio, la sera in palestra. La passione non l’ho mai persa, sono una di quelle che ci mettono il cuore, la grinta, la dedizione. Ciò nonostante, le delusioni sono arrivate forti, anche se oggi posso dire di aver rialzato la testa».
Per Terry Gordini, ravennate, quattro volte campionessa italiana e per due volte campionessa mondiale di pugilato, la medaglia più importante è suo figlio Nicholas: «Un figlio nella mia testa c’è sempre stato ma per molto tempo ho rimandato. Non avrei avuto tutele ma non avrei nemmeno potuto sopportare la lontananza. Io ero abituata anche a ritiri di mesi in giro per il mondo, per come sono fatta non sarebbe stato conciliabile. In più, mi dicevano che sarebbe stato difficile, per me, diventare mamma: avevo il 4% di massa grassa addosso, per anni sono stata in amenorrea. Eppure, il miracolo è arrivato».
E la parola miracolo, nella vita di Terry, torna quando il tema è quello delle discriminazioni: «Prima dei mondiali in Cina, nel 2012, Roberto Cammarelle per provocazione mi disse che le donne dovevano rimanere a casa a tirare la sfoglia e che ci sarebbe voluto un miracolo per portare a casa qualcosa di buono. Io gli risposi, secca, che la Madonna la vede chi ci crede. E dalla Cina tornai indietr
o con la medaglia d’argento. Nel 2014, stessa storia in Corea, dove vinsi il bronzo». Anni di soddisfazioni, anche se arrivati in ritardo rispetto alle aspettative di quella che era stata una bambina cresciuta intorno ai ring e al lavoro di suo padre Meo: «In Italia il pugilato femminile è diventato legale nel 2001, quando avevo già 22 anni. Io agli ambienti maschili ero già abituata, sono stata una delle prime donne in Emilia-Romagna a lavorare, come discontinua, nei Vigili del Fuoco. Ma mi ero anche messa a studiare, laureandomi in Operatore giuridico d’impresa e iniziando a lavorare come consulente negli studi legali. Nel 2013, per seguire i miei sogni di pugile, feci però un salto nel vuoto: stracciai un contratto a tempo indeterminato perché tra famiglia, lavoro e allenamenti la vita era diventata un inferno. Fu una scelta azzeccata, col senno di poi, perché divenni capitano della nazionale di pugilato femminile, ottenendo anche una misera diaria fissa. Peccato che da lì a qualche anno sarebbero arrivate le delusioni».
Nel 2015, due mesi dopo un’operazione al cuore, Terry corre alle Olimpiadi europee di Baku ma viene data ingiustamente sconfitta per preferenza contro l’atleta di casa. L’anno dopo, invece, viene silurata: «Dopo l’argento di Marzia Davide in Corea e il suo inserimento nell’organico sportivo della Polizia, mi resi conto che i miei titoli non importavano a nessuno e che non mi avrebbero dato la possibilità di qualificarmi per le Olimpiadi, l’unico sogno non realizzato, se non scendendo a compromessi. Avevo fatto di tutto per meritarmi quello che avevo ottenuto, ciò che avevo guadagnato era frutto solo dei miei grossi sacrifici, di nessuna raccomandazione, della fatica e dell’umiltà. Ma non ho potuto fare nulla. Il 2016 è stato l’anno più drammatico della mia vita, d’estate sono andata a fare la stagione al mare, lavorando 12 ore al giorno pur di non pensare. Poi, dopo quell’esperienza, mi sono rimessa in gioco come consulente giuridica, settore nel quale sono tutt’oggi. Il sogno dell’Olimpiade resta infranto. Ma sono orgogliosa di essere rimasta pulita».
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