“Era uno sportivo, a scuola andava bene, per gli altri era un leader positivo. Fin da piccolo, poi, aveva sempre dimostrato un grande senso della giustizia e aveva sempre preteso molto da se stesso”. Oggi quel bambino, per sua madre Stefania (nome di fantasia), ravennate, è un ragazzino di sedici anni che da un anno e mezzo non mette più il naso fuori dalla porta della sua stanza: “Esce solo per andare in bagno o prendersi da mangiare”. Stefania ha sentito parlare di Hikikomori la prima volta in un libro dello psicologo Matteo Lancini: “Ero in coda per i colloqui dei professori e stavo leggendo ‘Abbiamo bisogno di genitori autorevoli’. A un tratto ho letto la descrizione di mio figlio e per me che stavo cercando di capire perché non volesse più andare a scuola e si isolasse dal mondo, è stata una illuminazione“.
Il figlio di Stefania inizia a dare i primi segnali in seconda media: “Il suo rendimento ha iniziato a calare, all’inizio ho pensato si fosse fatto prendere un po’ troppo la mano dai videogiochi. Allora ho messo qualche regola sui tempi anche se lui, che in genere è molto onesto, dopo un po’ ha cominciato a dire bugie”. In terza la situazione si aggrava, anche se l’unico consiglio che arriva dagli insegnanti è insistere per farlo studiare: “Tutte le notti avevo l’ansia che la mattina inventasse una nuova scusa per non uscire di casa. Avevo trovato una parziale risposta nel fatto che in classe c’era un professore che lo aveva preso di mira e lo umiliava, una figura maschile negativa che faceva il paio con la tanto sofferta mancanza del padre, che purtroppo è mancato quando ero incinta”. Tra Stefania e il figlio parte una quotidiana e sfinente contrattazione che arriva fino alla fine della terza media: “Nel frattempo, per sdrammatizzare, avevamo scelto la scuola superiore attraverso una specie di gioco intrapreso col nostro cane. Io ero convinta che scatenasse in mio figlio una reazione, quell’idea stramba. Mica si può affidare la decisione di quale scuola frequentare a una scommessa. Invece niente”.
Del resto, quando a settembre suona la prima campanella, nella testa del figlio di Stefania la scuola è probabilmente già finita: “Ha frequentato per due settimane e poi basta. Si è chiuso nella sua camera, all’inizio senza più parlare né con me né con la sorella. Il suo tempo era ed è davanti al computer, si è anche creato un canale Youtube dove gioca con altre persone: quello è il suo unico contatto con il mondo, gli esperti mi hanno consigliato di non toglierglielo”. Stefania in quest’ultimo anno e mezzo si è chiesta più volte “dove ho sbagliato?” e “perché proprio a me?” ma è solo quando ha smesso di farsi domande che qualcosa ha iniziato a cambiare: “Il giorno che mi ha detto ‘muori!’ è stato uno dei più pesanti ma mi ha fatto capire che non avrei più dovuto vessarlo, che avrei dovuto lasciarlo stare e iniziare un percorso su di me e sul mio dolore che per troppi anni ho messo da parte”.
I sensi di colpa, però, ogni tanto tornano a bussare: “Sono stata una madre molto presente e autoritaria, perché ho dovuto crescere i miei figli da sola. Ero abituata che le regole servivano e i ‘no’ funzionavano. La storia di mio figlio ha scaraventato all’aria tutto, costringendomi a mettermi in discussione. Tante volte penso che il mio essere anticonformista, che spesso mi ha fatto dire ai bambini di non omologarsi, non abbia giovato”. Oggi, però, Stefania non cerca più la spiegazione: “Sto facendo piccoli passi e mentre io vado avanti, anche mio figlio qualche apertura la mostra: la porta della sua camera non è più chiusa, la sua aggressività è sparita, per le cose che gli interessano, come vendere il monitor del suo pc, riesce a uscire. A Natale scorso è venuto al pranzo di famiglia, è stato un regalo bellissimo e inaspettato. Siamo anche riusciti ad andare a Barcellona. Oggi la mia felicità è vederlo mangiare, incontrarlo di notte mentre svuota il frigo, sentirlo scherzare“.
La scuola, per Stefania, è invece un pensiero ormai lontano: “Per lui sarebbe un danno, ho accantonato l’idea che possa tornare. Questa storia finirà, mio figlio ne uscirà. A chi mi dice che devo mandarlo dallo psicologo, rispondo che non può andarci un ragazzo che resta per mesi e mesi confinato in camera sua. A chi mi suggerisce di dargli due calci nel sedere e mandarlo a scuola, rispondo che non sarebbe questo comportamento a salvarlo. La gente fa fatica, da fuori, a capire“.
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