“Sei solo bello!”.
E detto ad un metro e novanta di bisteccone biondo, no, non suona come un insulto. Non del tutto, almeno. Forse il tono mi fa venire il dubbio.
Ma per un istante, mica ci penso al tono. Il trucco sta nelle spalline sotto la divisa. Se sei grassetto, ti allargano le spalle, quindi diventi fisicato. Se sei basso, diventi imponente. Se sei gobbetto, svii l’attenzione. Se poi hai l’accortezza di tenere il mento alto, allora eccolo lì: il fascino della divisa.
“Arbitro, sei solo bello!”.
Eh. Adesso però è frustrazione. Il miglior insulto che abbia mai sentito da quando arbitro, glielo concedo, ma adesso è proprio frustrazione. Qualche amica ha riso. Forse anche qualche papà. Quindi si sente dalla parte del giusto e, ovviamente, bissa la battuta. Non la triplicherà. Sono mamme, conoscono tutte le regole. Tirano su nani dalla mattina alla sera e hanno ancora la forza di mettersi un bel vestito, truccarsi, e far presenza a bordo campo, meravigliosamente spaccamaroni dai 60′ ai 90′: cosa vuoi che sia una mezzora di differenza… quelle hanno una squilla che rivaleggia in potenza con il tuo ego quando hai un fischietto in mano.
Appena uno sguardo, per individuarla. Là. In mezzo al pubblico. Genitori assiepati. In mezzo a loro i soliti che cerano di scoprire il talentino in mezzo a quelle gambe ancora secche. Gente con il capello impomatato, il biglietto da visita che promette titoli e prefissi falsi come un ponte mobile, la parlantina sciolta di chi in realtà non sa bene di cosa si stia parlando ma “zo’, a’i sem”. Non da loro, no. Loro, per ora, male non fanno. Alla fine, è solo una questione di cuore, fango e calci negli stinchi. Ancora per poco. Ma, per fortuna, basta quello.
“Spaccagli una gamba, che tanto non fischia”.
E ovviamente fischio. Almeno quello, lo fischio. Fallo tutta la vita. Fallo come non mai. Fallo, sempre fallo, fortissimamente fallo.
C’è qualcosa di perverso ma di gustosamente logico nella consequenzialità con cui, da anni, mentre il pallone rotola, un arbitro ha effettivamente la possibilità di rispondere ad una mamma inviperita. “Piantala di fischiare”. Fischio. “Che fallo è?!”. Fischio. “Dai che non sei in fuorigioco”. Wait and see… eeeee… Fischio. “Ma non lo fischi quello?”. Non fischio. “Ma è fallo!”. Non fischio. “Ma come sei messo, arbitro?!”. °mi metto il fischietto in bocca°… eeeee… Non fischio.
La provoco, la mamma. Giusto per beccarla sul fatto, quando capisce di essere stata presa in giro. Una provocazione sottile. “Ma cosa fai?! Ma cosa fischi?!”.
Eccoti lì, mamma. Ti ho beccata. Lì dalla rete. Ti vedo scendere dagli spalti in ferraccio con la grazia di un angelo sterminatore. Ti attacchi alla rete che manco se elettrificata ti ferma. Sara Simeoni come non mai stai per scavalcarla con la licenza per uccidere mentre nella tua testa elabori il corso di autodifesa gratuito del Comune in almeno tre modi per fracassarmi un braccio usando la borsetta. E io mica giro al largo. Noooooo. Io mi faccio tutta la diagonale sulla tre quarti partendo dalla fascia opposta agli spalti e vengo lì sotto. Sorridendo. Rallento, quando all’altezza dei venti metri inizio ad avvertire vibrazioni talmente negative che anche i ragazzini mi guardano pieni di pietà. Perché l’ultima volta che tu, mamma, hai guardato tuo figlio così, è stata la prima ed unica volta che ha detto: “Posso portare un’amichetta a casa?”.
Ma in quel momento c’è un principio d’affermare. Perché se fosse un babbo, lo capirei. Il purino. In ufficio piglia ordini dal capo. In casa piglia ordini da te. Viene al campo la domenica e si sfoga. Ma no. È che tu sei troppo abituata a farti obbedire. Ma ho appena realizzato che la rete è molto alta, quindi, ancora, in campo comando io. In quei 60′. 70′. 80′. 90’… Io ho il fischietto in mano. A casa tu hai il matterello. A ciascuno il suo simbolo di potere, nel suo tempio. E, mentre mi avvicino, lo sai. Perché riconosci quello sguardo che ho in questo momento, mamma. È lo stesso che hai tu, ogni mattina quando ti svegli, e allo specchio ti dici che dovrà andare tutto per bene. Perché tu devi educare quei nani furiosi che fra un po’ si sveglieranno e, come unica missione, avranno quella di demolirti la casa o farsi mandare fuori dalla porta a scuola. Sette giorni su sette, sei tu che li fai crescere.
Meno che in quelle due orette in cui sono al campo. Già. Perché negli spogliatoi ci pensa il mister, a farli crescere. E sul prato verde ci penso io. Non tu. Io.
“Signora – ti dico guardandoti in quegli occhi così severi -… La prossima volta che apre bocca, prima mando fuori suo figlio, poi mando fuori lei. E sarà la prima del suo gruppo del bridge ad essere stata espulsa ad una partita di esordienti. Ora si metta comoda, che ritorniamo a pensare al calcio, eh?”. E poi via, veloce come un lampo, perché se rimango ancora tre secondi mi lanci una makumba di insulti che divento pelato come accadde a quel tale che faceva il mio lavoro qualche anno fa.
E anche lui si doveva preoccupare di una mamma. La sua. Quando partivano i cori dei tifosi scontenti.
Fischio. Non fischio. C’è sempre una mamma che ha qualcosa da dire. Ma so come sistemarla. E so anche che, ad un certo punto, mi capirà. Perché quando il pallone rotola, in campo sono un po’ mamma anche io.
Gian Piero Travini, arbitro e giornalista
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