Portare i bambini fuori anche se è freddo, anche se è nuvoloso. Farli giocare all’aria aperta senza temere che si ammalino. Coltivare il loro naturale contatto con la natura. Cose scontate? Affatto. Genitori e insegnanti sono poco propensi a quella che viene chiamata “outdoor education“. Un’abitudine che un tempo era normale e quotidiana e che oggi, invece, andrebbe recuperata. Michela Schenetti, docente al dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, ne ha parlato a marzo 2013 a Happy Family, in Fiera a Forlì.
Perché, anche alla scuola dell’infanzia, si tende a tenere sempre più i bambini in sezione?
“Le variabili sono molte. Ho portato avanti una ricerca in materia, per capire come mai le professionalità educative non accettano questa sfida. Uno dei motivi è che si tratta di una scelta che espone ad un rischio educativo: pensiamo ai sassi, che i bambini possono mettere in bocca o ai pezzetti di legno, con i quali possono farsi male. Il passaggio mentale è importante: bisogna fidarsi dei bambini, recuperando quell’idea di bambino competente che non sempre si tiene presente”.
Anche i genitori sono restii rispetto fatto che i bambini stiano a contatto con la natura?
“Se trovano insegnanti che propongono con convinzione la presenza di certi materiali, spazi e contesti, si tranquilizzano. Però sono preoccupati delle condizioni atmosferiche, convinti che un bambino che sta fuori si ammali più facilmente, quando invece sappiamo che se è ben coperto, non è più esposto alle malattie. Anzi, di solito è il contrario: ci si ammala di più dentro”.
Come avete sondato le loro preoccupazioni?
“Attraverso questionari che verificassero la loro percezione del rischio intorno ad un progetto di riqualificazione dello spazio esterno della scuola dei loro bambini. Abbiamo chiesto, tre le altre cose, la loro opinione nel caso ci fosse stato, per esempio, un laghetto nel cortile”.
E’ importante che i giardini delle scuole siano ben curati?
“In una regione come la nostra, dove la qualità dei servizi per l’infanzia è molto elevata, sarebbe centrale qualificare anche le aree esterne, come fossero ulteriori aule. Non dobbiamo pensare all’esterno solo come al luogo del gioco libero ma come al luogo del fare in generale, della didattica”.
L’idea dell’educazione all’aperto è legata a concetti più ampi?
“Credo che sia legata all’educazione sostenibile, quindi alla salute, al benessere, all’attenzione per ciò che mangiamo, alla qualità della vita. I servizi per l’infanzia dovrebbero trasformarsi in servizi sostenibili dove anche la scelta dei giochi da comprare si concentra sui materiali naturali e di riciclo”.
A Bologna ci sono esperienze in controtendenza?
“C’è stata la sperimentazione ‘Scuola nel bosco’ della fondazione Villa Ghigi. Alcune scuole dell’infanzia hanno passato qualche settimana interamente all’aperto. Il progetto ha ricevuto molti apprezzamenti. Peccato che sia emerso il problema dei trasporti, sarebbe impegnativo per i genitori accompagnarvi i bambini. Al momento la Fondazione prosegue con i ‘sabati nel bosco’ per bambini da zero a sei anni e i loro genitori”.
Da chi possiamo ispirarci, per imparare come si fa educazione all’aperto?
“Io sono stata alcuni mesi in Svezia, in una I Ur Och Skur, che significa ‘scuola con il bello e il brutto tempo’. I bambini, lì, sono sempre fuori, anche quando dormono. E’ stata una bella esperienza, che mi ha fatto molto riflettere. In Svezia l’attenzione per l’infanzia è a 360 gradi ed è politica, cioè legata ad un sistema di welfare molto radicato. L’indole dei genitori verso i loro figli, d’altro canto, è diversa: ho notato un maggiore distacco rispetto a noi italiani. Un distacco sano. Sarà che noi i bambini ce li sudiamo: conciliarli con il lavoro è difficilissimo, non abbiamo molti sostegni. E corriamo il rischio di diventare, verso di loro, iperprotettivi”.
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