Ogni endometriosi è a sé, non ce n’è una che assomigli ad un’altra. Ma per tutte le donne che ne soffrono, sapere che c’è un gruppo che le ascolta, le sostiene e le aiuta a condividere la sofferenza è importante. Uno dei sedici gruppi di A.P.E. (Associazione Progetto Endometriosi) è attivo anche in Romagna, per l’esattezza a Forlì, Cesena e Ravenna. Marisa Di Mizio, presidente della sede di Reggio Emilia, ci ha messo diciassette anni ad avere una diagnosi. Sa bene quanto sia importante che i medici siano capaci di riconoscere alcuni segnali. E che le donne si rivolgano ai centri specializzati.
Marisa, quante donne sono affette da endometriosi in Italia?
“Non esiste un registro nazionale, abbiamo solo delle stime: si parla di tre milioni di donne in età fertile. Siamo un esercito”.
E le cure?
“Non esiste una cura specifica. La terapia spesso consiste nella somministrazione della pillola anticoncezionale che mette a tacere le ovaie. Ci si opera, anche: un intervento ben eseguito può migliorare la qualità di vita anche per cinque/sette anni, dopo i quali in genere c’è una recidiva. L’endometriosi è una malattia cronica, l’intervento non risolve per sempre i problemi, i controlli sono da fare sempre”.
Nell’immaginario si associa l’endometriosi al fatto di non riuscire ad avere figli: è così?
“L’infertilità è una conseguenza per il 35% delle donne con l’endometriosi. La maggior parte, quindi, riesce ad avere figli, o per via naturale o con la procreazione medicalmente assistita. Ma i casi, lo ripeto, sono diversi tra loro. C’è chi ha stanchezza, terribili dolori mestruali, sciatalgia, infertilità. C’è invece chi ha un’endometriosi asintomatica e fa due figli senza problemi”.
Quanto è invalidante, nei casi più gravi, una malattia del genere?
“Siamo in attesa che il decreto che stabilisce che l’endometriosi rientri nelle tabelle dei punti di invalidità diventi attuativo. A seconda che sia al primo, secondo, terzo o quarto stadio – a seconda della compromissione degli organi riproduttivi – vengono stabiliti i punti. Ma non è sufficiente: alcune endometriosi non compromettono l’infertilità ma organi come l’intestino o i reni. C’è ancora molto da fare”.
In genere le donne scoprono tardi di esserne affette?
“C’è un ritardo diagnostico di circa sette/otto anni. Ma speriamo che il gap venga colmato. Oggi se ne parla sempre di più. Abbiamo attivato il progetto Costruendo, dedicato ai medici di base: raccontando e spiegando loro che cos’è l’endometriosi, speriamo possano avere le antenne dritte quando una paziente chiede un antidolorifico in più quando ha il ciclo”.
A livello psicologico, le donne dei vostri gruppi quali disagi vivono più di frequente?
“L’incertezza, la paura di quello che accadrà. Devono ragionare con il calendario alla mano: pensate ad una trentenne che ha un’endometriosi al terzo stadio ma che non può o non vuole avere un figlio in quel momento. Sul suo futuro c’è un grande punto interrogativo”.
Anche per lei è stato così?
“Ho sofferto per diciassette lunghi anni, non solo prima e dopo il ciclo. Non potevo programmare una cena fuori, un’uscita. Stavo sempre male. Al di là del lavoro, che non potevo sopprimere, ho cancellato dalla mia quotidianità tutto il resto. A 38 anni mi sono sottoposta ad isteroctomia totale, mi hanno tolto ovaie e utero”.
Che cosa le ha insegnato la sua esperienza?
“La malattia ti mette di fronte a tempi di vita particolari, a ritmi che non sarebbero tuoi altrimenti. Ma che bisogna imparare a rispettare”.