“Noi lasciati fuori dalla Terapia Intensiva mentre il bimbo moriva”: lettera al ministro Lorenzin per aprire le porte della Rianimazione

Ci ho messo un po’ a scriverla. Moltissimo a leggerla. Perché certe storie sono come un pugno nello stomaco che alla terza riga togli lo sguardo dal monitor perché proprio non ci riesci. Alla fine ho deciso che volevo darle voce. Perché certe storie devono fare il giro, un giro lunghissimo e meritano di essere ascoltate. Qui non c’è di mezzo la vita di un bambino ma la sua morte, gli ultimi momenti di vita dai quali genitori e parenti vengono tagliati fuori. Lasciati dietro a una porta.

Le storie a dirla tutta sono due. Quella di Marina Cometto, mamma di una ragazza gravemente disabile, e della sua lettera al ministro della Salute Beatrice Lorenzin per chiedere che cambino le regole degli ospedali e si permetta ai genitori di bambini e adulti di restare a fianco dei figli anche nella Terapia Intensiva. Marina scrive dando voce a tantissime famiglie con bambini affetti da sindromi gravi che spesso finiscono i loro anni di sofferenze in ospedale, portati via anche solo da una febbre.

La lettera, così come la testimonianza che si porta dietro, sono state pubblicate dal sito Superabile Inail. La seconda storia è quella di Daniela Zocchi, la zia di un bambino malato morto all’ospedale Santobono di Napoli lo scorso primo ottobre. Il piccolo, affetto da Sindrome di Leigh, era stato ricoverato la sera prima per un problema respiratorio e una forte tachicardia. All’alba sopraggiunge una forte febbre. Il bambino viene trasferito dal reparto in Rianimazione. Le regole dell’ospedale prevedono solo due fasce orarie di visite, dopo pranzo e la sera, per due ore e un’ora ciascuna, e al massimo fino alle 21.30.

“Massimo due persone, senza opportunità di darsi il cambio con altri parenti – racconta Daniela – L’ultima volta che lo abbiamo visto è stato la sera del primo ottobre alle ore 20,30: era sedato, aveva un febbrone da cavallo e le manine e i piedini freddissimi. Glieli ho tenuti in mano tutto il tempo nella speranza di riscaldarli”. Il giorno dopo, all’alba, i parenti del bambino sono già fuori dal reparto in attesa di vederlo. Viene comunicato loro che sono gli ultimi momenti di vita del bambino ma gli viene impedito di entrare. Gli è stato permesso di vederlo dopo che è morto: “Ricordo anche che la dottoressa mi disse che sarebbe stata inutile la mia presenza, tanto lui non avrebbe sentito nulla e non si sarebbe accorto di me.  Le risposi: ‘che ne sa lei, è mai morta?’. La porta si è richiusa alle nostre spalle e per me sono stati i minuti più brutti della mia vita: sapere che dentro c’è la persona che hai sempre accudito, amato, che non hai mai lasciato solo neanche per andare al bagno, e che ora stava per lasciare questa terra, è stato terribile”.

Nella lettera al ministro Lorenzin Martina Cometto scrive: “I nostri figli pur nella gravità delle loro condizioni sia fisiche che psichiche ‘sentono’ anche quando sono sordi, ‘vedono’ anche quando sono ciechi, ‘capiscono’ anche quando sono molto colpiti nella sfera cognitiva. E tutto questo perché noi genitori con le nostre carezze, con i nostri baci, con i nostri sorrisi, con la nostra sola presenza trasmettiamo loro tutte le possibili sensazioni perché loro si sentano prima di tutto amati. Non si capisce allora perché non possiamo stare loro vicino quando devono affrontare la terapia intensiva o la rianimazione, che sovente accompagna inesorabilmente verso ‘l’ultimo viaggio’. In alcune rianimazioni è permesso visitare l’ammalato per mezz’ora al giorno, in altre per un’ora o due dilazionate nella giornata, in alcune non è prevista alcuna presenza”.
Non possiamo che augurarci che il ministro Lorenzin legga, mediando tra il dolore delle famiglie e le esigenze crude dei reparti ospedalieri.

 

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