“Mia figlia era anoressica, oggi è incinta”. il racconto commovente di un papà

anoressiaGiù, sempre più giù, fino a trenta chili. E poi di nuovo su, fino a guarire del tutto, fino a rimanere addirittura incinta. Senza provare vergogna per quella malattia che l’ha attanagliata durante l’adolescenza. Sabrina (il nome è di fantasia) è una 23enne di Faenza. Figlia unica di due genitori che per molto tempo sono stati suoi ostaggi, angosciati e impotenti, arrabbiati e disarmati. Il padre (lo chiameremo Roberto) ha 57 anni. Tra quattro mesi sarà nonno. Ha scelto di raccontarci la sua esperienza. Senza nascondere commozione, lacrime e parole strozzate dal ricordo di anni bui, con gli occhi degli altri addosso, con i denti stretti, con una battaglia grande come una casa da combattere in trincea. E da vincere.
Sabrina aveva solo quindici anni quando ha iniziato ad avere comportamenti anomali. Quali sono stati i primi segnali?
“Era una ragazzina in carne, poco a poco iniziò a perdere peso. Quando le chiedevamo se andava tutto bene, lei ci rassicurava. Durante l’estate di quell’anno rimaneva a casa da sola mentre io e mia moglie eravamo al lavoro. Scoprimmo più tardi che stava molte ore al telefono con un’amica: insieme avevano deciso di seguire una dieta, di correre. Era il loro segreto, si coprivano a vicenda”.
A tavola Sabrina come si comportava?
“Aveva iniziato a fare selezione, a scartare alcune cose. Ma tutto avveniva con gradualità, non destava troppi sospetti. Mia moglie cominciava ad essere allarmata, io meno. Sabrina aveva raggiunto il peso forma, era una bella ragazza. Poi, però, notammo che da solare quale era, si era fatta più cupa. La preoccupazione aumentava”.
Fino a che?
“Natale di quell’anno fu un giorno terribile. Al ristorante cercammo di farle mangiare qualcosa ma senza risultato. Il giorno dopo svenne e chiamammo l’ambulanza. La pediatria dell’ospedale fu costretta a prenderla in carico. Nella sfortuna, fu una fortuna. La visita dalla neuropsichiatra, che avevamo prenotato in ottobre, era programmata solo per marzo”.
Finalmente qualcuno iniziò ad occuparsene: difficile farsi ascoltare?
“Molto, non si capisce che la tempistica dev’essere brevissima, che il tempo stringe e che prima si affronta il problema, più alte sono le possibilità di uscirne. Mia moglie arrivò persino a bussare alle porte della direzione generale dell’Asl purché ci ascoltassero e ci dessero una possibilità”.
Quando avete sentito la parola anoressia, come avete reagito?
“Con angoscia. La diagnosi di anoressia nervosa è terribile, è una malattia di cui si parla troppo poco. Un genitore si mette in uno stato di attesa, inizia a sperare che sia un momento passeggero. Quando nostra figlia è arrivata a pesare trenta chili, è stato il punto peggiore della malattia. Non vomitava ma nascondeva il cibo, lo trovavamo negli angoli più nascosti: spesso si capiva che non aveva fatto nulla per impedire che la scoprissimo, segno che non aveva una completa vigilanza sulle cose”.
E gli amici? I professori?
“Sabrina si era isolata, gli amici li aveva lasciati da parte. I suoi insegnanti erano del tutto disarmati di fronte al suo problema. Come noi, del resto”.
Chi ha aiutato di più sua figlia a guarire?
“Non bastano i medici, serve l’affetto, sono necessarie tante figure diverse. Noi abbiamo fatto di tutto per farla sentire seguita, amata. Dopo due anni, nell’ultimo ricovero, veniva alimentata per endovena e quando, invece, doveva mangiare da sola, c’era un’assistente che si sincerava che si nutrisse. Dopo aver rifiutato per molto tempo le cure, era arrivata a dire di volerne uscire, era consapevole della malattia e decisa a guarire”.
C’è stato un momento nel quale avete capito che Sabrina stava risalendo?
“Sì, un momento drammatico purtroppo. Nel reparto di Pediatria era ricoverata Sofia, una bimba di due anni con un tumore al cervello. Sabrina le si era affezionata. Un giorno Sofia le offrì un cioccolatino e Sabrina lo accettò, lo mangiò. Sofia è morta il giorno prima che Sabrina venisse dimessa. Al funerale mia figlia ha letto una lettera commovente nella quale prometteva a Sofia e a se stessa che ce l’avrebbe messa tutta per uscire dall’anoressia. Da lì abbiamo cominciato a vedere graduali miglioramenti”.
Si prova vergogna ad avere un figlio anoressico?
“Vergogna no ma tanto disagio. Ci si interroga sulle proprie colpe, sui propri errori. Gli altri non sono in grado di supportarti, quasi faticano a tirare in ballo il problema, come fosse un tabù. A noi è servito molto confrontarci con altri gruppi di genitori, serve a smorzare quel magone, quel senso di colpa che in realtà non serve a niente. Oggi riesco a dirlo, allora non lo capivo”.
Come sta, oggi, Sabrina?
“Bene, ha una vita tranquilla e torna spesso in Pediatria a parlare con le ragazzine anoressiche della sua esperienza. Convive con il suo compagno, è al quinto mese di gravidanza. Se sarà femmina, la chiamerà Sofia”.

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