Chiedere a una donna che non proviene da un Paese dove si pratica l’infibulazione se l’ha subita è fuori luogo quanto impedire a una mamma magrebina di dare il cous cous a suo figlio al posto dell’omogeneizzato. Ne è convinta Maria Giovanna Caccialupi, fondatrice nel 1991, per conto del servizio materno-infantile della Usl 28 di Bologna, del Centro per la salute delle donne straniere e dei loro bambini, il primo servizio pubblico italiano che vantava – e che vanta tutt’ora – mediatrici culturali sempre presenti. Un’operazione da pionieri, andata avanti nel tempo a suon di ricerche e formazione, non senza difficoltà.
Professoressa, lei oggi è in pensione. Quali erano, 24 anni fa, le principali novità del Centro?
“L’accesso diretto per tutte le donne straniere, a qualunque titolo fossero in Italia. Regolari? Irregolari? Non importava. Per noi era fondamentale accoglierle per registrarne i bisogni, rigorosamente intorno a un tavolo tondo per metterle a loro agio”.
Nel tempo gli accessi sono sempre aumentati?
“Sì, nel 1991 le donne erano invisibili. Poi, anche a causa dei grandi flussi migratori dall’Est, la loro presenza si è fatta sempre più forte e, di pari passo, anche la necessità di mettere a disposizione mediatrici russe, ucraine, moldave, rumene. La trasformazione che abbiamo cercato di portare è quella di fornire il servizio di mediazione anche negli ambulatori esterni al nostro Centro: oggi a Bologna, ma anche in altre province dell’Emilia-Romagna, il mediatore è garantito, anche se a chiamata”.
Ginecologia, ostetricia, pediatria. In questi settori che impatto hanno le diverse culture di provenienza delle donne?
Molto forte. Un esempio per tutti: se ho una sala d’attesa gremita di donne dell’Est, dove il servizio sanitario funziona, so che l’aspettativa è alta e che la richiesta di salute è precisa e articolata. Se, al contrario, ho donne africane, dovrò mirare il colloquio e fare un accompagnamento adeguato per far sì che la richiesta venga espressa bene e che la nostra risposta sia funzionale”.
Qual è stato, in questi anni, l’ostacolo maggiore?
“Far comprendere che il nostro non era e non è un servizio ghetto ma un punto di partenza per far conoscere alle donne l’intera rete del servizio sanitario. La nostra efficacia l’abbiamo sempre misurata registrando quanto le pazienti, dopo qualche mese dal primo accesso al Centro, di fatto si rivolgessero ai consultori di zona, all’ospedale e agli altri punti della rete.
In ambito pediatrico ma non solo, anche gli stessi medici hanno dovuto superare pregiudizi e resistenze?
“Assolutamente sì. Abbiamo lavorato, per esempio, sui parametri di accrescimento del bambino usati dai cinesi, in vista dei bilanci di salute. I pediatri di base hanno fatto un grande lavoro per allargare le proprie vedute: per una mamma marocchina un cous cous con le verdure può essere molto meglio di una pappa con l’omogenizzato”.
Sul discorso delle mutilazioni genitali femminili, come vi siete mossi?
“La nostra è una regione che, statisticamente, non ha molte donne provenienti dai Paesi dove si praticano le mutilazioni. Ma abbiamo comunque sensibilizzato gli operatori e realizzato una ricerca. Quando un medico si trova davanti una donna con l’apparato genitale modificato, l’impatto emotivo è molto forte e si rischiano errori. Noi abbiamo studiato un percorso per far sì che l’operatore si avvicini alla donna con sensibilità, evitando per esempio di colpevolizzarla. Ci sono donne che sono state infibulate a otto giorni di vita e pensano che il loro corpo sia sempre stato così. Una grande soddisfazione l’abbiamo avuta quando abbiamo notato come le donne che sono qui da oltre cinque anni, sulle proprie bambine rifiutano le mutilazioni. Non condannano le loro madri ma sulle loro figlie decidono loro”.
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