bambino che gioca a basketA tutti gli scettici che ha sentito all’inizio, il professor Mario Floris ora risponde che la sfida è stata vinta. Con tanta fiducia e pazienza. Il basket può essere, infatti, un veicolo per la conquista di molte abilità da parte dei bambini e del ragazzi con disturbi dello spettro autistico, soprattutto sul fronte dell’autonomia. Il professore, che sabato 28 maggio, al Safari Ravenna, condurrà il convegno “Un canestro di vita. Basket e autismo: storie di squadre speciali” all’interno della due giorni “Sport e animali a supporto dell’autismo”, segue da anni due progetti simili, uno con la Scuola basket modenese e l’altro con “Basket Aut” di Massa Carrara. Progetti che sono arrivati anche a Ravenna grazie all’Angsa.
Professore, che percorso proponete ai bambini e ai ragazzi autistici?
“A Modena prevediamo un lavoro quinquennale: il biennio serve ai ragazzi autistici per conoscere l’ambiente e adattarsi, gli ultimi tre anni sono invece dedicati a una maggiore relazione con i compagni, spogliatoio compreso. Gli autistici vengono inseriti nella squadra, in alcune partite giocano con gli altri, che ne diventano quasi sempre i tutor, avviando uno scambio che ha benefici per tutti. A Massa seguiamo una fascia di età più bassa: dopo due anni di lavoro, un bambino è stato inserito in un corso di mini-basket vero e proprio. L’obiettivo, in fin dei conti, è dare a tutti le stesse opportunità”.
Come la prendono, all’inizio, i genitori?
“Per le famiglie che vivono il problema dell’autismo è già molto difficile portare i figli fuori casa. All’inizio, quindi, è normale che siano titubanti e piene di paure. Ma con il tempo, quando vedono che i ragazzi imparano a farsi la doccia da soli, ad asciugarsi i capelli o a sistemare la borsa senza dimenticare nulla, si rendono conto che lo stesso percorso verso una maggiore autonomia possono portarlo avanti anche a casa. Anche gli specialisti restano sbalorditi dai progressi”.
Su quale versante, per la precisione?
“Una delle cose che sembra più impensabile è la condivisione delle emozioni, durante il gioco, tra ragazzi autistici e non. Risultato che abbiamo più volte toccato con mano e che affascina sempre i medici”.
Il basket ha delle caratteristiche peculiari che lo rendono adatto a un percorso come quello da lei proposto?
“In teoria è vero il contrario. Dovendo passarsi la palla, dovendo mirare al canestro, che è posizionato in alto, il basket viene visto come uno sport poco adatto all’inserimento di soggetti con autismo. Invece ci siamo resi conto che nella pratica, le cose stanno diversamente: la presenza del canestro aiuta ad allenare lo sguardo di tutti, anche di chi fa fatica persino a guardare negli occhi di chi ha davanti a sé. La palla, poi, diventa uno strumento fondamentale di relazione: per quanto stereotipati in certi meccanismi, i bambini autistici attraverso le regole del basket riescono, chiaramente con una guida, a condividere con gli altri nuovi movimenti e nuove iniziative di tipo fisico”.
Difficile, per gli istruttori, “adattarsi”?
“Gli istruttori diventano più bravi, si mettono in gioco, ridisegnano le strategie operative e pedagogiche. I vantaggi, alla fine, ci sono per tutti”.