Secondo Melita Cavallo, ciò che di peggio un giudice minorile può trovare sulla propria strada è una mamma che non vede abusi e violenze perché non li vuole vedere. Perché è collusa, insomma, con il padre maltrattante. Il fenomeno che più la preoccupa, invece, è la conflittualità esasperata tra i genitori, un fenomeno che attraversa le famiglie di tutte le classi sociali, al pari della delinquenza minorile. La presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, che ha alle spalle quarant’anni di esperienza tra Milano, Napoli e Roma, che ha presieduto la Commissione per le adozioni internazionali e il Dipartimento per la giustizia minorile, sarà oggi alle 18 alla Feltrinelli di Ravenna (via Diaz 14) per presentare il libro “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza) insieme a Letizia Ciancio, responsabile Politiche di genere e della famiglia dell’associazione Liberi Cittadini.
Qual è il cambiamento più forte che ha visto accadere nelle famiglie negli ultimi decenni?
“Senz’altro l’emancipazione della donna e il suo ingresso nel mondo del lavoro, anche in posizioni di vertice. Un cambiamento importante e positivo che buona parte del mondo maschile non ha ancora digerito. E che le istituzioni continuano a non sostenere. Io stessa, che ho tre figli, se non avessi avuto una solida rete familiare e amicale a supportarmi, non avrei senz’altro potuto fare tutto quello che ho fatto. In Italia mancano scuole a tempo pieno che vadano oltre le elementari, mancano attività extrascolastiche non a pagamento. E così, chi ha stipendi medi, spesso rinuncia a fare più di un figlio”.
Genitori che cambiano sesso, coppie miste, fecondazione eterologa che porta alcune donne a scegliere di fare i figli da sole, stepchild adoption. Quando sente parlare di famiglia tradizionale, che cosa prova?
“Mi rendo sempre più conto che una parte della società non accetta che le cose sono cambiate, che bisogna parlare di famiglie e non di famiglia, che i bambini possono essere ben tenuti – e a volte anche meglio – in famiglie diverse rispetto al modello tradizionale”.
Con che sensazione è andata in pensione, lo scorso gennaio?
“Con un po’ di nostalgia per il mio lavoro ma anche con la consapevolezza che, alla mia età, sia giusto così. Per carità, si può perdere lucidità, memoria e fluidità anche prima dei settant’anni. Non c’è nessuno che venga a verificare lo stato di salute dei giudici. Fatto sta che, per svolgere al meglio questo mestiere, oltre a competenza ed esperienza servono dosi massicce di energia: per ascoltare bambini e adulti, mediare, mettere d’accordo le parti, andare a fondo dei casi. Dunque, va bene così”.
In che misura, prima di lasciare la sua carriera, ha visto approdare il problema del bullismo nelle aule?
“Sempre più di frequente, anche sotto il profilo penalistico, visto che in alcuni casi a configurarsi è un vero e proprio reato. La scuola non è preparata a individuare i sintomi, non guarda ai comportamenti dei ragazzi, è sempre e solo protesa alla didattica. La scuola non si occupa dell’educazione al rispetto dell’altro, delle differenze, della donna e della bambina. Con il risultato che i genitori sono costretti a portar via i figli dalla scuola che non ha saputo intervenire, e ricorrono ai tribunali “.
Nel libro tratta anche il tema delle madri anaffettive: c’è un caso che le è rimasto particolarmente impresso?
“Sì, quello di una mamma che si occupava della figlia ma trascurava totalmente il figlio più piccolo, nato da una violenza. Su quel bambino trasferiva infatti tutto l’odio nutrito per il compagno che l’aveva abusata e abbandonata”.
Quali pensieri si affollano, nella testa di un giudice, quando deve decidere sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale, quella che si chiamava patria potestà?
“Bisogna analizzare nel dettaglio ogni singolo aspetto. Solo così, con un’istruttoria che non lascia nulla al caso, si può arrivare all’estrema decisione con la giusta consapevolezza”.
Fa davvero il bene dei bambini, oggi, l’affidamento condiviso nei casi di separazione?
“Sì ma solo quando tra gli ex coniugi la conflittualità è venuta meno o è molto diminuita. Negli altri casi, non è mai la soluzione migliore per i minori coinvolti”.
E l’istituto dell’affido? Crede andrebbe promosso di più?
“Andrebbe fatto conoscere meglio e, di pari passo, sostenuto economicamente. Potrebbe essere l’unico mezzo per ridurre il numero dei bambini in casa-famiglia. La famiglia semplice, dove per semplice intendo una coppia, preferibilmente con figli, socialmente e culturalmente di livello non alto, è quella più adatta ad accogliere un bambino; ma spesso non ha i mezzi per garantirgli tutto quello di cui ha bisogno; e i contributi arrivano anche con molti mesi di ritardo”.
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