Una donna per terra. Non è dato sapere se viva o morta. E’ sdraiata, inerme, le gambe storte. Mutandine visibili, jeans strappati (per moda o per difendersi?) e un paio di zeppe ai piedi slacciate a metà.
Che schifo. E’ l’unico commento che viene voglia di fare. Pure con rabbia. Poi guardi meglio, strabuzzi gli occhi e ti si accappona la pelle. Non è la scena di un crimine, cribbio. E’ una pubblicità. A me come a molti altri è sembrata la scena di uno stupro.
Cari signori della comunicazione (mi sento male a chiamarvi così visto che faccio questo lavoro da anni e lo avete ridotto al lumicino della comprensibilità in un colpo solo) oggi avete una sola cosa da fare. Che non è vergognarvi, perché poco ce ne facciamo, prima di tutto come donne, della vostra vergogna. Dovete togliere quella foto. Perché se ancora avete un minimo di dignità, dovete usarla per riconoscere di avere fatto un errore clamoroso.
Il post, che ha iniziato a divenire virale in rete a botta di pessime recensioni, lo trovate qui. Pensate che indignarsi equivalga a fare pubblicità? Non credo. Non è nascondendo un fatto gravissimo che si evita che accada ancora. L’indifferenza in questo caso non serve. L’indignazione, sì.
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