Abbiamo bravi medici, che si fanno in quattro, in grado di far fronte alla mole di lavoro, a diagnosi di ogni tipo, ad afflussi di bambini con svariati bisogni. Quindi abbiamo la diagnosi e anche la cura ma non abbiamo i posti letto per chiudere il cerchio di un servizio che in una regione come l’Emilia-Romagna dovrebbe essere un fiore all’occhiello.
La sensazione, anzi, la certezza, è che il fiore ci sia ma non entri in un occhiello dal buco sempre più stretto.
Da giornalista, ho un difetto di professione: se vedo sento il bisogno di raccontare. E ieri ho visto con i miei occhi che cosa accade quando il reparto di Pediatria di Ravenna funziona come un imbuto. Bambini dalla città, bambini dalla provincia. Con la diretta conseguenza che in quei periodi di pienone i posti letto finiscono e le risposte non possono esserci per tutti. Ieri era uno di quei giorni. Posti letto finiti, troppi ricoveri. Vietato ammalarsi. O, meglio, ammalarsi si può senza esagerare. Perché a meno di letti a castello ieri in Pediatria a Ravenna non entrava nemmeno uno spillo.
E così cari genitori, bisogna che ce ne facciamo una ragione: viviamo in una grande città. Negli ultimi anni è accaduto che ci siamo trasformati in una metropoli e non ce ne siamo accorti. Perché io una scena del genere l’avevo vista sì, quando vivevo a Roma. Una città con quasi tre milioni di anime da soccorrere al bisogno.
In questi giorni, per vicissitudini varie, ho conosciuto mamme in arrivo da Faenza (eh ma i nonni sono lontani, il marito lavora, chi mi aiuta, in ospedale a Ravenna devo restare da sola), mamme in arrivo da Lugo dopo una giornata di spola tra pediatra e ospedale e alla fine la decisione di virare a Ravenna, mamme in arrivo da altre zone della Bassa, senza trovare posto letto, costrette a tornare a casa per presentarsi di nuovo l’indomani.
Sono la nuova categoria voluta dall’Ausl: si chiamano pendolari della salute. Non basta che il bambino stia male, l’ansia, il bisogno di organizzarsi, l’altro bimbo da sistemare. Si è aggiunto il viaggio.
Tocca aspettare le prossime elezioni, per sperare in una brusca e veloce inversione di rotta.
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