“Nessuno in Italia nasce antisessista o femminista”. Lorenzo Gasparrini deve spesso specificare, quando va in giro a parlare del libro “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” (settenove), di essere eterosessuale. Perché se parli di pari opportunità, conseguenze culturali del patriarcato o diritti delle donne, sembra automatico che tu debba essere gay. L’autore, fondatore dei blog “Questo uomo no” e “La filosofia maschia” sarà ospite oggi alle 17 alla Biblioteca Trisi di Lugo dell’associazione Demetra donne in aiuto. Dialogheranno con lui Nadia Somma, attivista del centro antiviolenza Demetra e Tullia Dalla Moglie, educatrice pre/neonatale e coordinatrice dell’associazione A fior di Pelle.
Gasparrini, come viene percepito un uomo che si occupa di questi temi?
“Mi capitano spesso situazioni peculiari. Definirmi femminista, in questo Paese, è infatti un problema perché non abbiamo una tradizione accademica in questo senso e perché il femminismo è stato protagonista della storia delle donne. Per questo vengo percepito come quello strano, sbagliato o che si vuole prendere meriti che non ha. Senza contare quando le persone sono convinte che, se tratti questi argomenti, fai parte del mondo Lgbt”.
Ci sono, invece, “vantaggi”?
“Io dico sempre che è uno svantaggio occupare il primo posto della gerarchia sociale imposta dal patriarcato, quella degli uomini eterosessuali, perché quello che guadagno è meno di quello che perdo in termini di felicità delle relazioni assenza di ansia da prestazione, per fare qualche esempio. D’altro canto mi imbarazzo quando ambienti femministi di donne mi appoggiano a prescindere, senza guardare ai contenuti. Del resto, io stesso critico alcune posizioni di certi femminismi. Fa piacere essere considerato un bell’esempio ma sarebbe bene non cercare mai di banalizzare la complessità. Io stesso cerco di non farlo, per non cadere nel gioco di chi polarizza le discussioni e di chi vede solo il bianco e il nero”.
Lei è anche padre di due figli: visti i condizionamenti culturali del posto in cui si nasce, quanto conta d’altro canto l’educazione?
“Tantissimo. E conta soprattutto quanto gli adulti, quindi i genitori, si mettano in discussione rispetto a quello che sono e alle scelte fatte, magari a loro volta condizionate da qualcuno o da qualcosa, inconsapevolmente. In Italia si nasce e di cresce in mezzo a valori considerati naturali, dati per scontati. Ma per un uomo che vuole metterli in discussione opporsi al sistema, la fatica è doppia perché l’uomo fa parte della categoria di chi opprime ed esercita potere e non ha, come le donne che sono più abituate a ridiscutere la propria identità, un’idea di quale possa essere l’alternativa”.
Secondo lei una delle sfide per abbassare il livello di sessismo è quella che siano gli uomini a farsi avanti?
“Credo che molti uomini lo facciano già ma non a tutto tondo su tutti gli aspetti della vita. Alcuni, anche informati e impegnati su diversi fronti a lottare per le libertà, poi nei rapporti familiari e sentimentali riproducono le stesse gerarchie che combattono in altri settori. Questo perché agli uomini viene insegnata fin da quando sono piccoli la netta divisione pubblico/privato, la suddivisione di tutto in schemi. Un esempio pratico? Se una donna va da ginecologo, è normale. Se un uomo va dall’andrologo, deve avere per forza un problema. Non è ammesso che lo faccia per sapere come sta, per un controllo. La dice lunga sul fatto che gli uomini non vengano educati a parlare, a esprimersi, a tirare fuori la frustrazione”.
Con quali conseguenze?
“Che se la prendono con il bersaglio più a portata di mano, le donne, che nella cultura sessista vengono considerate un po’ la causa di tutto”.
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