Roberta, Beppe, Totò: “Così rendiamo l’autismo meno spaventoso”

Totò

“Io l’ho saputo molto presto, che in mio figlio qualcosa non andava. Io l’avevo capito, che lui non progrediva come gli altri, che il suo sguardo andava oltre anche le poche volte in cui incrociava il mio”. Roberta Buzzi, di Comacchio, è la mamma di Antonio, Totò, un bimbo di quattro anni a cui il disturbo dello spettro autistico è stato diagnosticato quando aveva solo diciotto mesi. Per lei, tecnico della riabilitazione psichiatrica con un’esperienza nella Neuropsichiatria infantile dell’Asl di Ferrara, accorgersi della “diversità” di suo figlio rispetto agli altri bambini è stato abbastanza automatico: “Quando Totò aveva sette mesi la mia testa già sapeva che si trattava di autismo. Ma per qualche tempo sono rimasta in silenzio, non riuscivo a dirlo nemmeno a Beppe, il mio compagno. Quando ho iniziato a raccontarlo, soprattutto ai familiari più stretti, mi sono sentita rispondere che ogni bambino ha i suoi tempi, che magari Totò non era espressivo perché timido. Fino a che ho capito che stavo perdendo del tempo prezioso”.

Durante il terzo bilancio di salute, quando la pediatra chiama più volte Antonio per nome, lui non si gira. La dottoressa chiede a Roberta se per caso il bimbo è arrabbiato. Ma lei le risponde con poche parole: “Lui funziona così”. Una presa di coscienza dopo la quale arrivano la diagnosi e le terapie, accompagnate da un dolore lancinante che si insinua nella vita di una coppia, di una famiglia. Esperienze che Roberta racconta quotidianamente sulla pagina Facebook “Vi raccontiamo l’autismo RobertaBeppe” e che ha descritto anche nel libro “Dolceamaro” (edizioni Il Fiorino) che presenterà il 20 maggio alle 18 alla sala Polivalente di Comacchio: “La scrittura è la coperta calda del mio dolore. Serve a elaborare quello che rimane da affrontare, serve a condividere il ‘nostro’ autismo con quello vissuto dalle altre famiglie e serve a spiegare che cosa c’è dietro una parola che spaventa e che si porta dietro lo stigma e il pregiudizio”.

Roberta e Antonio

Atteggiamenti che secondo Roberta la gente ha, spesso, per scarsa conoscenza: “L’autismo va presentato in punta di piedi ma la mia scelta è stata quella di non nascondermi, di non farne un segreto. Così facendo, ho notato, si abbattono molti muri. Poi resta sempre una percentuale di persone che non è interessata a capire, che si allontana. Ma il futuro di mio figlio voglio costruirlo sulla restante percentuale, quella composta da chi le accorcia, le distanze“.

Nella coppia, secondo Roberta, il più forte è stato il suo compagno: “Come dice sempre Beppe, quando ti annunciano che tuo figlio è autistico non abbassi le aspettative ma butti via qualsiasi progetto. Io ho avuto momenti in cui avrei voluto chiudere gli occhi e non riaprirli mai più, sono stata per molto tempo arrabbiata con il mondo, con le altre mamme, con gli altri bambini, chiedendomi perché fosse successo proprio a noi. Non è nemmeno facile rimanere uniti, diverse volte abbiamo rischiato che uno dei due facesse le valigie. Ma come genitori non abbiamo mai tentennato, ci siamo mantenuti saldi, convivendo i percorsi terapeutici di Totò. Dal canto mio, dopo essere caduta e dopo essermi rialzata, ho capito che continuando a chiedermi il perché avrei limitato la crescita di mio figlio”.

Roberta non ha alcuna pretesa di far diventare i suoi racconti verità universali: “Lo dico sempre a chi mi chiede perché scriviamo della nostra vita sui social. Questa è solo la nostra storia, d’altro canto portatrice di un messaggio importante: che i bambini autistici non sono chiusi in una bolla, non sbattono solo la testa contro il muro, non sono aggressivi. Almeno, non sempre. Oggi che sono libera dai sensi di colpa che mi sono fatta come mamma, da quelli che io e Beppe abbiamo sofferto come coppia, visto che siamo noi insieme ad aver generato una vita diversa da quella che avevamo messo in conto, posso raccontare con serenità la vita di Totò. Lo posso fare anche grazie alla rete di supporto che abbiamo trovato intorno a noi, dai professionisti ai familiari. Senza di loro non ci saremmo mai ripresi”.

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