“Abbiamo rischiato di perdere Sofia a causa della chemioterapia, più che a causa della leucemia”. Barbara Roso è una mamma che abita a Pisa. Tra settembre e ottobre verrà anche in Emilia-Romagna a raccontare la storia di sua figlia e della sua famiglia, contenuta nel libro “Giù le mani da Sofia. Sottrarre una bambina alla chemio e restituirla alla vita” (Edizioni Sì), che parte dalla diagnosi di leucemia linfoblastica acuta ricevuta nel 2015, dalla sua bambina, all’età di otto anni. Un momento che Barbara ha rivissuto, mentre scriveva il libro, entrando in una sorta di trance: “Di quel giorno ho in mente di essermi sentita come scaraventata da un binario, come ridotta in mille pezzi. Ho pensato che non fosse nemmeno la mia vita, che quello fosse un film. Ma mai ho creduto che la malattia di Sofia potesse condurla alla morte, questo no”.

Dopo il cortisone e la prima dose endovenosa di chemio, gli esami di Sofia erano a posto: “I blasti erano passati dal 95% allo 0,041%, come era emerso dal prelievo di midollo. La malattia in pratica non c’era più. Ma il protocollo prevede che si vada avanti per 24 mesi e, convinti che dovessimo fare come dicevano i medici, abbiamo anche accettato che nostra figlia entrasse in una sperimentazione che prevedeva, per il primo ciclo, due dosi in meno”.

Il punto è che Sofia, dopo la seconda dose, inizia a stare troppo male: “Ha rischiato l’invaginazione dell’intestino e, dopo la terza, è andata vicina alla perforazione del colon, oltre a contrarre polmonite e pleurite. Era in uno stato di salute penoso, psicologicamente distrutta. Diceva che non ce la faceva più, voleva strapparsi le cannule. Lei si fidava di me, di me che avevo l’impressione di essere un’assassina, di portarla davvero alla morte. I primi dodici giorni delle cure le erano bastati a stare bene e a riportare i valori nella norma. Ma ora la stavamo massacrando solo nell’eventualità remota che non si riammalasse più”.

Barbara e il compagno decidono quindi di non riprendere la chemio sospesa per alta tossicità dagli stessi medici, dopo un consulto nazionale: “Era evidente che si era ridotta così per quello. Anche se i medici erano unanimi nel sostenere che dovessimo proseguire per precauzione, Sofia non aveva più nulla da combattere. L’ospedale è stato fondamentale per la sopravvivenza di nostra figlia, non nego questo. Ma accanirsi così tanto su una bambina che già sta bene solo perché bisogna fare così secondo noi non aveva più senso. E invece la nostra sfida al protocollo ci ha portati per dieci lunghi mesi in Tribunale, dove abbiamo combattuto una battaglia legale per evitare che ci venisse sottratta Sofia”.

Da lì la famiglia ha iniziato una ricerca delle cause intraprendendo un cambiamento di stile di vita, sopratutto sul fronte alimentare: “Tutti noi abbiamo sostituito le proteine animali con una vastissima gamma di proteine vegetali, usiamo cereali integrali e pseudo-cereali, andando così a soddisfare il palato e a colmare perfettamente il bisogno nutrizionale di Sofia e le sue vecchie carenze. Diamo molta importanza anche al tipo di acqua che beviamo. Non ci piace definirci vegani, perché non amiamo le etichette: se Sofia va a un compleanno è libera di mangiare la torta con la panna, perché è giusto che abbia una vita sociale. Oggi sta benissimo, fa ginnastica artistica agonistica, gli esami semestrali continuano a essere perfetti. Documentandoci, abbiamo cercato di dare una spiegazione alla leucemia, anche sul fronte psicologico. Sofia era molto stressata e in difficoltà, non ci eravamo accorti di come stesse vivendo una serie di cambiamenti a catena, considerando quanto lei sia conservatrice. Sul piano fisico, aveva un sistema immunitario già carente, anche perché dalla gravidanza io avevo poco ferro, vitamina B12 e vitamina D. Oggi siamo attenti a prevenire, agendo sulla qualità della nostra vita”.

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