Una mamma di due figli che rimane senza il compagno, con due suoceri che le fanno la guerra, senza un lavoro, finendo presto nel baratro economico, con le banche che le mettono il fiato sul collo. L’inferno è proprio questo secondo il ravennate Stefano Bon, autore del libro “La ragazza che andò all’inferno” (Castelvecchi) che presenterà questa sera alle 21 al Caffè Letterario di Lugo (Hotel Ala D’Oro, corso Matteotti 56) e domenica 5 novembre alle 15,30 nella biblioteca Enrico Liverani dell’ospedale civile di Ravenna.
Stefano, come è riuscito a descrivere l’angoscia di una donna, a entrare in panni femminili?
“Non è stato uno sforzo, è venuto naturale e automatico. Mi era già successo nel mio primo libro ed è ricapitato stavolta. Sentivo la necessità di omaggiare la fragilità femminile, di sottolineare come la donna – in una situazione come quella che racconto – a causa delle insidie della società e del sistema possa oggi ancora soccombere. Per scrivere dal punto di vista femminile non credo sia necessario grande talento: basta parlarci, con le donne. Basta mettersi in ascolto”.
Anna, la protagonista, ha lo stesso nome di sua moglie. Un caso?
“No, certamente. Anna è la persona che mi sta accanto da 22 anni. Di lei la protagonista ha lo stesso atteggiamneto verso il mondo: positivo e in sintonia fino a quando non viene calpestata e tira fuori tutta la sua ferocia”.
La famiglia è al centro del romanzo: Anna non è sposata e vive le conseguenze negative di non essersi formalmente unita al compagno che ha perso. La rete dei parenti e sociale non la sostiene. Ne sente tante, di storie così?
“È vita reale, quotidiana. Io stesso per alcuni periodi ho vissuto l’angoscia di una mancata protezione esterna. Di inferni simili ne viviamo tutti. Nel romanzo, non a caso, quello di Anna si incrocia a un certo punto con quelli sperimentati da altri personaggi. L’importante è avere la possibilità di risalire, di passare dalle fiamme che purificano per poi tornare a vivere”.
Ci si può dimenticare dell’amore, in quelle situazioni di estremo disagio?
“Credo di no, anche se all’inizio lo si può pensare. Anna viene da una situazione alquanto ritirata in cui aveva tutto: un compagno che l’amava, due figli. Quando lui viene a mancare non riesce a compensare affettivamente, pare che tutto il mondo le dia contro, che nessuno la capisca. Non ho mai creduto, del resto, alla massima secondo la quale gli amici si vedono nel momento del bisogno. Gli amichi spesso scappano, davanti al dolore degli altri. Ma l’amore resta una necessità e una ricerca. Questo libro avrebbe dovuto intitolarsi ‘Le cose che abbiamo perso per strada’. Perché nei momenti di inferno ce ne lasciamo tante, alle spalle, tra cui forse l’amore. Ma poi lo recuperiamo. Spero che il messaggio positivo che volevo mandare scrivendo, in effetti, arrivi”.
Anna fa una scelta eticamente discutibile, all’inizio del suo tentativo di rinascita. Teme di ricevere critiche?
“Non mi sento in colpa, come scrittore, per quello che Anna sceglie di fare per rialzarsi, anche se è discutibile dal punto di vista morale. Si può far male alle persone in tantissimi modi, non solo come decide di farlo lei. Mi sento di difenderla in quanto figura materna che tenta di difendere il suo territorio di sicurezza, i figli. E lo dico da padre”.
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