Tutti noi almeno una volta nella vita siamo stati il ‘ripiego’ di qualcuno. Sì, insomma, eravamo così presi, così innamorati di una persona da prestarci a subire umiliazioni, appuntamenti mancati, comportamenti che calpestavano la nostra dignità e i nostri sentimenti. In cuor nostro sapevamo che lui (o lei) non era innamorato, ci usava solo quando non aveva di meglio da fare, ma non riuscivamo a staccarci da quel tunnel.
E’ capitato anche a me, quando ero molto più giovane e ingenua: a qualsiasi ora del giorno e della notte in cui lui chiamava io non riuscivo a dire di no. Mai un messaggio o una chiamata in cui mi chiedeva “come stai”, o “ti penso”; si faceva sentire solo quando gli amici lo bidonavano o quando non rimorchiava nessun’altra. E tutti mi ripetevano che dovevo lasciarlo perdere, che di me non gliene fregava nulla, che sarei andata incontro a sofferenze e mancanze di rispetto. Eppure non riuscivo a chiudere. Non riuscivo a chiudergli il telefono in faccia. A mandarlo a quel paese. Non importava se avevo una decina di filarini che avrebbero fatto di tutto per uscire con me, magari anche più belli, più gentili, più intelligenti.
Sono sempre stata una che per capire le cose ci deve andare a sbattere e farsi male. Il dolore lo sopporto. Finché non c’è una ferita che diventa una questione di auto sopravvivenza. Se continuo, la ferita si ingrandirà e non riuscirò più a curarla, e tutto si riduce a un’unica domanda: voglio salvarmi o no? Perché se voglio salvarmi devo trovare la forza di chiudere questa storia e non devo vederlo più. Starò a letto senza mangiare settimane, e mi farò male ai pugni a forza di colpire il muro per la rabbia e la delusione. Passerò notti e notti a cercare di capire cosa non andava in me e perché lui non mi amava. Finché un bel giorno capirò che non c’era nulla di sbagliato in me, semplicemente non sempre chi amiamo ci ama a sua volta.
Mi ha sempre fatto arrabbiare la frase amor ch’a nullo amato amar perdona perché non c’è nulla di più falso: amare qualcuno non significa che l’amore ci sia restituito. E poi a distanza di anni, non sono neanche sicura che fosse amore: era più un attaccamento morboso, una specie di sindrome di Stoccolma che mi legava a colui che mi faceva solo del male. Ora sono sicura che questa esperienza mi abbia reso più forte. E successivamente a quell’episodio sono stata io spesso nelle relazioni a essere quella distante, opportunista e anaffettiva. So di aver fatto soffrire persone che non lo meritavano.
Mi chiedo come facciano molte donne a vivere una vita intera succubi di uomini che non le rispettano o le trattano male. Forse perché loro stesse non si amano abbastanza. Dopo quell’esperienza, una parte di me non e mai più stata la stessa. Ho perso l’innocenza e non ho più permesso all’amore di snaturare la mia personalità. Non c’è amore che valga l’annientamento della propria dignità. Una volta, diversi anni dopo, ho cercato su Facebook il suo nome, e ho rivisto la sua faccia, e pensavo avrei provato odio, rabbia, vergogna. Invece ho sorriso. La rabbia e l’odio sarebbero stati sintomi di debolezza, un segno che forse quel trauma non l avevo mai superato. Invece non provai nulla. Anzi mi scappò un sorriso. Nella foto del profilo aveva il solito sguardo da stronzo. Qualche rughetta in più ma per il resto era uguale. C’era anche un foto in cui abbracciava una ragazza. Sembrava innamorato. E dentro di me gli ho augurato tutto il bene di questo mondo. E’ così che si vincono i propri demoni. Guardandoli in faccia. Senza paura. Senza rancore. Immagino che crescere significhi più o meno questo: guardare in faccia le cose che ci hanno fatto soffrire e non abbassare lo sguardo.
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