Mulayka: “Io, convertita all’Islam: ecco la fatica di crescere mia figlia”

Mulayka Enriello è un’insegnante di matematica convertita all’Islam 22 anni fa insieme al marito, anche lui italiano. Mamma di una ragazza che studia all’Unversità, è responsabile dell’educazione per il Coreis, la Comunità religiosa islamica italiana. Mercoledì 7 febbraio sarà a Bologna per il seminario “La religiosità nella sua valenza formativa” in programma alla Sala Farnese di Palazzo D’Accursio (piazza Maggiore 6). Dove parlerà anche della sua quotidiana “battaglia” per educare all’interno della religione e dei cambiamenti che nella sua vita sono avvenuti in concomitanza agli attacchi dell’Isis.

Mulayka Enriello

Mulayka, chi è oggi sua figlia?
“Una giovane musulmana, felicemente: è praticante, partecipa al lavoro che faccio e vive serenamente il fatto di avere i nonni cristiani. Siamo rimaste da sole quando aveva dieci anni, visto che mio marito è putroppo mancato. E abbiamo affrontato insieme quel paradosso per cui, essendo italiane, non veniamo colpite dalla sovrapposizione di razzismi e catalogazioni varie ma, essendo musulmane, pochi non capiscono perchè andiamo alla moschea. Io, fuori dai momenti rituali di preghiera, non sono solita indossare il velo. E nemmeno questo viene troppo capito, quando in realtà non è un obbligo”.
Si è mai chiesta, durante la sua crescita, se la stesse lasciando libera di essere e di scegliere?
“Certo ma la scelta è stata sempre quella di osservarla, accompagnarla e sostenerla, lasciandole i tempi per capire e per decidere. Ha perso il papà presto e questo l’ha senz’altro rafforzata. Ma oggi i ragazzi sono sollecitati in mille modi anche su aspetti molto delicati, chiamati a prendere decisioni e a esagerare la percezione della propria individualità: per sopperire a tutto questo, i metodi educativi di un tempo non vanno più bene, bisogna dare corda, pazientare, aspettare il momento giusto per parlare degli argomenti e far capire. La complessità dei tempi è tale per cui è diventato necessario andarci piano. Senza contare che la scuola, mondo che conosco bene anche se ho lasciato l’insegnamento anni fa, a volte sollecita i ragazzi di culture e religioni diverse a staccarsi dalle proprie origini, instillando in loro il senso di dover prendere la propria strada”.
Che primo consiglio darebbe, agli insegnanti?
“Di non mettere davanti a tutto la propria visione del mondo, di essere preparati davanti alla diversità e alla complessità, di affidarsi a chi è più esperto di certe tematiche, di provare a capire”.
Ci sono stati contraccolpi, negli ultimi anni, sulla percezione nei vostri confronti e sulla vostra quotidianità?
“L’11 settembre del 2001 si è iniziato finalmente a parlare di religione. Peccato che lo si sia fatto sempre in relazione al terrorismo o all’anti-terrorismo. La grande ricchezza dell’Islam è la sua spiritualità, che però solo raramente emerge. Anche quando ne si vuole parlare in chiave positiva, si finisce a parlare degli aspetti più superficiali, come le questioni velo-non velo. Non solo: sulla nostra pelle viviamo la grande polarizzazione tra gli orientamenti pro-immigrazione e pro-Islam e quelli contrari, rischiando di aprire la strada a una politicizzazione che per noi sarfebbe deleteria. Nel quotidiano tutto questo si traduce nella fatica di dover sempre rispondere a domande sul terrorismo. Mia figlia, negli anni del liceo, si è fatta i muscoli nello sforzo continuativo di dover ribattere e difendersi da accuse che però non la riguardano. Alla lunga queste pressioni logorano: per fortuna la preghiera serve anche a scrollarsele di dosso”.

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