L’avvocato che ha seguito la vicenda non ha dubbi: è tutta colpa di Facebook. Ne è convinta Valeria Bertuccioli, il legale che all’edizione locale del Resto del Carlino ha detto che la vicenda è emblematica “dei disastri che possono essere provocati dai social”. In effetti il sospetto è arrivato proprio da Facebook, da una frase che pareva buttata a caso su una bacheca: “Tuo figlio non ti somiglia”.
L’uomo, un operaio di 30 anni di Pesaro, si è insospettito e ha voluto vederci più chiaro: così ha sottoposto il bambino al test del Dna. La risposta è stata inequivocabile: il piccolo non è suo figlio. Messa di fronte all’evidenza, la compagna non ha potuto fare altro che confermare: nel periodo del concepimento aveva avuto rapporti sessuali anche con un altro uomo. Di conseguenza l’operaio se n’è andato dalla casa nella quale conviveva con la compagna e il bambino (in età prescolare) ed ha avviato la causa per il disconoscimento di paternità.
Una pratica, quella del test del Dna, che sta prendendo sempre più piede: basta farsi un giretto su Amazon per rendersene conto. I kit per i test fai da te sono numerosissimi: con poche centinaia di euro ci si può togliere la curiosità: secondo alcune stime una persona su dieci non sarebbe figlia del padre anagrafico.
Tornano al caso di Pesaro, il padre, quello biologico, sembra sia proprio l’uomo che aveva messo la pulce nell’orecchio al 30enne con la frase vergata su Facebook. Tutta colpa di Facebook, dunque? Beh, se la signora ha fatto sesso con Mark Zuckerberg sì, altrimenti temiamo che almeno qualche concorso ci deve pur essere stato…
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