Ci sono cose che non si dimenticano. Per una madre, tra quelle cose, ci sono notti infinite di pianti, stanchezza, capelli arruffati e luci accese a metà. Ci sono anche mattine in cui la casa si svuota, i caffè non bastano e giornate in cui il tempo, con un neonato, sembra non passare mai.
Di tutta quella solitudine, però, è ancora scomodo parlare. Per fortuna esistono i libri a sdoganare i tabù. A dire che sì, il pianto di un bambino di pochi mesi – anche se voluto, desiderato, amato – può sfinire e “spezzare la ragione”. E che si può arrivare ad urlarli, il sonno e l’inadeguatezza, anche contro un figlio appena arrivato e privo di colpe. Che si può finire anche inginocchiate davanti a una carrozzina bella come lo era sui cataloghi, a implorare nostro figlio di smettere di urlare. O a sperare che i mesi passino perché quello strazio finisca.
A tutto questo dà voce Rossella Milone nel libro “Cattiva” (Einaudi), che è un colpo al cuore per ogni donna che, con un neonato in braccio, non si è sentita solo felice ma anche – e forse soprattutto – distrutta, disperata, abbandonata, non all’altezza.
“Il tempo da soli con una neonata può essere orrendo. Non passa, è pesante, è pericoloso. Ti fa guardare in faccia chi sei, e alla fine sei qualcuno di solo e inesperto”, dice Emilia, la protagonista. Che si fa la pipì addosso ogni volta che dà un colpo di tosse, che si abbassa, che prende in braccio la sua bambina, perché col parto ha detto addio al pavimento pelvico: “La convalescenza è un periodo di cure e comprensione, io invece devo essere una guerriera e le guerriere non si pisciano addosso. Sono stanca e ho bisogno di dormire, e ho bisogno di mutande, prima di combattere”.
E non è automatico amare, così. Non lo è per niente, alla faccia della rassicurante storia dell’istinto materno: “Io non so cosa le so dare, se non il latte. L’amore, quello, non ha a che fare con il parto, ma con il tempo. E il tempo si è rotto per tutte e due, al momento”. E dalla stanchezza alla paura, dalla solitudine alla paura, la strada è corta: “Ci guardiamo per ore. Io mi annoio per ore. Altre volte non mi annoio ma si annoia lei e comincia a piangere. Oppure prova disagio, quello che è. Io mica lo so. Non riesco mai a sapere cosa vuole. Non sapere cosa fare è la cosa più avvilente, ed è per questo che quando sono sola con lei ho paura. Uno spavento ancestrale come il battito cardiaco. Mi spaventano i suoi occhi supplichevoli, questa piena, totale, indiscussa fiducia che mi mette addosso”.
Ma davvero, poi, ci si ricorda di tutto? E se la risposta è sì, perché le mamme delle mamme, spesso, non capiscono? “Pure lei deve aver pianto con me neonata attaccata al petto – pensa Emilia riferendosi alla nonna di sua figlia – mentre mi ribellavo e singhiozzavo, perché non capivo che ci facevo lì, nata, nel mondo; pure lei deve avere sentito l’impotenza ghiacciata piombarle addosso, nelle sue notti afflitte e vuote. Pure lei deve saperlo cosa significa non sapere cosa fare”.
Non sapere cosa fare tra mille consigli non richiesti o fuori luogo, come quello – trito e ritrito – che le mamme si devono riposare di giorno per recuperare le ore perse di notte, quando invece devono approfittarne per fare le mille cose che altrimenti non potrebbero fare, come concedersi una doccia: “E quindi quello che dicono che procreare è un atto di egoismo dicono una stronzata, la prima cosa da fare quando metti al mondo un figlio è imparare a rinunciare”.
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