Luisa: “La mia battaglia per fare accogliere il mio bimbo con autismo a catechismo”

Esiste il diritto, per i bambini con disabilità, di essere accolti in parrocchia con tutte le attenzioni e il sostegno di cui necessitano? La risposta è “assolutamente sì” secondo Luisa A., una mamma di Rimini che da circa un anno e mezzo sta combattendo la sua personale battaglia affinché il figlio, che ha dieci anni e un disturbo dello spettro autistico, venga accolto come gli altri bambini a catechismo e lei non sia costretta, pur di farlo partecipare, a rimanere insieme a lui nei corridoi.

“Credo che le parrocchie, che fanno dell’apertura all’altro e dell’inclusione la loro bandiera – racconta Luisa – si dovrebbero attrezzare per una formazione all’accoglienza consapevole. Dopo mesi e mesi in cui mi sembrava di essere in un paese straniero e di non parlare la stessa lingua delle persone che si occupavano di mio figlio, l’educatrice che lo segue a scuola mi ha fatto il favore di andare a parlare con le catechiste, dando loro qualche dritta. Dal sabato successivo, finalmente, il mio bambino è stato accolto con modi migliori e oggi le cose, grazie alla sensibilità di catechiste e compagni, stanno migliorando“. Luisa, nel frattempo, aveva anche voluto incontrare il parroco, stanca dell’indifferenza generale. E si era anche attivata con i servizi pubblici perché venisse garantita un’educatrice a supporto dell’attività del catechismo: “Sono convinta, infatti, che la colpa della mancata formazione non sia certo delle parrocchie in sé ma di tutto un sistema che potrebbe lavorare più in sinergia: Asl, famiglie e attività che ruotano intorno ai bambini dovrebbero essere coordinate. Non si può pensare di aspettare un anno per avere un supporto, da parte dell’Asl, per il catechismo o altre attività. Non sono io, mamma, a dovermi attivare per trovare una catechista pronta all’accoglienza della disabilità”.

La frustrazione di Luisa si aggiunge alle tante altre già vissute sulla pelle della propria famiglia: “Mio figlio ha avuto tre insegnanti di sostegno diversi in tre anni. La terapia comportamentale la paghiamo di tasca nostra. Anche ai centri estivi, le ore coperte dal sostegno sono sempre troppe poche. Insomma, la battaglia è quotidiana e si gioca su più fronti. Io sto pensando anche di battermi legalmente, per la questione del terapista comportamentale, una figura qualificata che segue mio figlio anche a scuola ma i cui costi ricadono sulle famiglie: la giurisprudenza, sui casi singoli, spesso non si gira dall’altra parte. I genitori che ci hanno provato hanno avuto quasi sempre sentenze positive”.

Il problema, dunque, non è solo in parrocchia: “Certo, nei tempi in cui viviamo, se una famiglia che vive il problema della disabilità ha piacere di coltivare la propria fede e crescere i propri figli secondo il percorso che gli altri bambini fanno in parrocchia deve trovare una formazione adeguata in partenza. Così come in un ufficio pubblico si costruisce una rampa per le carrozzine, in tutti i luoghi bisogna abbattere quelle barriere che impediscono di accogliere la disabilità mentale”.

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