«La mia non è una polemica, racconto questa storia perché il razzismo esiste eccome, ma a volte forse è meglio parlare e spiegare, specie con i più giovani, che sono ancora in tempo per cambiare idea».

Anna è una giovanissima mamma di Piacenza. Il suo compagno, italiano, ha la mamma congolese. Qualche settimana fa, dopo aver preso suo figlio, di quasi due anni, dal nido, Anna è andata al parco di via Emmanueli. Quando il piccolo si è avvicinato allo scivolo, un ragazzino le ha rivolto la parola dicendo che il bambino non sarebbe potuto salire, perché quel gioco è per i bianchi.

«All’inizio – racconta Anna – mi è scappata una risata, sono stata colta alla sprovvista. Allora ho chiesto al ragazzo dove fosse scritta, quella regola. Lui mi ha risposto che l’aveva decisa lui, perché le persone nere puzzano, rubano il lavoro e per questo vanno tenute lontane. Stava ripetendo qualcosa di sentito da altri, era chiaro. Io ho cercato, allora, di mantenere la calma, forte anche del fatto che il mio bimbo, essendo molto piccolo, non si era accorto di niente».

Il dialogo col ragazzino, a quel punto, prosegue: «Gli ho chiesto se si fosse informato, se avesse esperienze con persone dalla pelle di un altro colore. Lui mi ha detto di no, aggiungendo che così gli avevano insegnato. Allora io l’ho incalzato, spiegando che non è più un bambino, che è in grado di prendere informazioni, di capire, di farsi delle idee proprie. Dopodiché, visto che era insieme a un gruppo di coetanei, di cui uno con evidenti origini nordafricane, ho chiesto all’amico da dove venisse. Lui mi ha risposto che i genitori sono marocchini. Allora mi sono voltata di nuovo verso il ragazzino della frase sullo scivolo, sottolineando come il Marocco sia nello stesso continente da cui viene mia suocera».

Quello del parco, per Anna, è stato il primo episodio di razzismo subito ai danni di suo figlio: «Ero pronta psicologicamente, sapevo che prima o poi sarebbe successo ma, davvero, non me l’aspettavo ai danni di un bimbo così piccolo. Sono abituata alle domande, alle curiosità delle persone, che comunque celano spesso un rimarcare la differenza, quella tra me bianca e tra mio figlio nero».

Quando ha raccontato in giro del fatto, Anna ha percepito che altri, al suo posto, avrebbero reagito diversamente: «Arrabbiarmi o chiedere di parlare con i genitori non avrebbe avuto troppo senso, secondo me. Ho puntato sul dialogo, sperando che a 13-14 anni sia ancora possibile aprire la mente. Questo insegnerò a mio figlio, un giorno: a difendersi con la forza dei pensieri, delle parole, senza violenza».