Silvia e Massimo, marito e moglie, hanno accolto in questi anni a Gambellara un centinaio di persone che avevano bisogno, anche solo temporaneamente, di accoglienza. Questa è la loro storia: “La nostra può sembrare una storia di sacrificio. Ma indietro riceviamo moltissimo”
Luciana indica il cuore quando pensa a Maurizio, quello con le perline raffigurato sulla sua maglietta. Lo tocca mentre guarda una sua foto appesa al muro della sala da pranzo insieme a quella di tanti altri che hanno trascorso parte della loro vita nella casa famiglia nella quale Luciana vive ormai dal 2006: «Sono circa un centinaio le persone che sono passate di qui – racconta Silvia Bargossi che, con suo marito Massimo Santi, gestisce una delle case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII nei pressi di Gambellara, in provincia di Ravenna -. Entrare in contatto con tante storie ed esperienze diverse è come girare il mondo senza spostarsi».
Sofferenza, gioia, speranza, delusioni. Incontri brevi, alcuni che vanno avanti per anni, altri finiti male. Altre ancora, invece, sono storie di rinascita: “Ogni storia è come un pezzo di un puzzle – riflette Massimo -. Varrebbe la pena raccontarle tutte, perché sono esempi di grande umanità». Nell’ex asilo parrocchiale di fine ‘800, eredità del parroco di Gambellara, Silvia e Massimo hanno aperto una casa famiglia nel 2005 dopo un’esperienza di affido: «Sin da quando eravamo giovani sposi – racconta Silvia – abbiamo sempre lasciato aperta la porta di casa. Ricordo che d’estate c’era una famiglia di giostrai che si fermava dalle nostre parti e i loro figli venivano spesso da noi a fare merenda, mentre i nostri figli avevano sempre le tasche piene di gettoni per le giostre, che gli regalavano i loro genitori per ricambiare». L’altruismo e la voglia di condividere pian piano prendono forme più concrete: «Nel 2000 siamo diventati una famiglia affidataria – spiega Massimo -. Mentre era in corso l’istruttoria per ottenere l’idoneità per adottare, ci proposero di prendere un ragazzo in affido. Ed è così che è arrivato Federico che ci ha cambiato la vita. Nel corso degli anni lo abbiamo visto superare tante avversità, fare pace con la sua famiglia di origine, rifiorire». «Credo di aver sofferto di una sindrome precoce “da nido vuoto” – continua Silvia -. Quando i nostri due ragazzi erano adolescenti, abbiamo sentito il desiderio di accoglierne un altro. Federico diceva di avere due mamme che si completavano, e per me lui è stato proprio come un figlio. Purtroppo è morto prematuramente in un incidente stradale, e per tantissimo tempo ho vissuto con un vuoto nel petto».
Da lì il passo è verso un’accoglienza a 360 gradi diventa naturale: «Nel corso dell’esperienza di affido – dice Massimo – abbiamo conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII. Noi cercavamo un confronto per condividere le nostre esperienze e con loro abbiamo trovato una grande famiglia dove non c’è differenza tra chi accoglie e chi viene accolto. Poco dopo è iniziata questa nuova avventura che ancora ci accompagna». Nel frattempo Massimo si licenzia dal suo vecchio lavoro e Silvia passa a un part time prima di formarsi come educatore professionale e adulto accogliente: «Ho sentito di dover coltivare il mio talento, quello di dedicarmi agli altri – specifica Silvia – e di metterlo a disposizione. La nostra vita potrebbe sembrare dedita al sacrificio, ma è talmente tanto quello che queste persone ci ridanno indietro, che tutto ciò ci dà gioia e ragion d’essere».
Mentre Silvia e Massimo raccontano la loro storia, Luciana, oggi 57enne con la sindrome di Down, ci ascolta e si emoziona al suono di alcuni nomi che probabilmente la riportano alla mente immagini lontane: «Quanta vita che c’era in Maurizio. Lui, che era tetraplegico dalla nascita, non si è mai lasciato sfuggire nessuna occasione di felicità. Ricordo le nostre apparizioni alle sagre di paese, qui nel ravennate, e i loro balli. C’era Luciana che faceva roteare la sedia a rotelle e Maurizio che si muoveva cercando di seguire il ritmo della musica. Si creava il vuoto intorno a noi. Erano così felici, così vicini. Quando Maurizio è morto, è stato un duro colpo per tutti, specialmente per Luciana».
I ricordi vanno allora al “Senatore” un uomo sulla cinquantina che soffriva di una forte depressione: «Lo chiamavamo così – sorride Massimo – perché per cena lo vedevamo scendere le scale in giacca e cravatta. Quando lo abbiamo conosciuto non muoveva nemmeno le mani per quanto era depresso. Ora vive con altre persone in un appartamento a Imola seguito dai servizi sociali». E poi Giorgio (nome di fantasia), senza fissa dimora, che si presentava da Silvia e Massimo per le grandi occasioni, come Natale e Pasqua: «Quando arrivava da noi, gli dicevamo che per sedersi a tavola doveva farsi la doccia, lui sbuffava un po’, ma poi acconsentiva. Quanta dignità e onestà in quell’uomo. Ogni tanto veniva anche a prendere del cibo e, per il forte senso di reciprocità che lo contraddistingueva, a un certo punto ha cominciato a portarci dei regali. Era a conoscenza della nostra fede in Dio e un giorno ci consegnò un’immagine della Madonna dicendo: “Questa l’ho trovata nel bidone, ma non era il suo posto. Qui ora starà meglio”».
Ci sono poi persone che colpiscono ancora più da vicino, perché ci si identifica: «Per sei mesi è stata da noi una donna che aveva una malattia all’ultimo stadio. La prima volta che ci siamo sedute a parlare – rammenta Silvia – mi sembrava di vedere me stessa allo specchio: avevamo più o meno la stessa età, gli stessi capelli. Mi disse che aveva bisogno di un posto tranquillo dove sistemare le ultime cose. In quelle settimane ha incontrato colleghi, amici, persone con cui aveva delle cose lasciate in sospeso. Voleva chiarirsi con tutti. Era estremamente lucida e consapevole. Credo che si stesse preparando alla morte. Un giorno l’abbiamo accompagnata all’hospice. Poi siamo andati a trovarla a Natale e quella è stata l’ultima volta che l’abbiamo vista. “Non tornate più” ci disse, era pronta».
Oggi, nella casa famiglia di Silvia e Massimo, insieme a loro vivono Luciana, Rosa, la loro terza figlia di 20 anni e la nonna molto anziana: «Rosa è la nostra ultima adolescente – spiega Massimo -. Per lei questa vita è la normalità. Tutti noi non sapremmo vivere in altro modo, ma possiamo accogliere solo persone che siano compatibili con chi è già in casa. Vorremmo aprire le porte a mamme con bambini molto piccoli che sono in carcere». Mentre raccontano la loro storia, Silvia dà la merenda a sua madre: «Prendendomi cura di lei, le restituisco solo in minima parte quello che lei ha dato a me. Non dimenticherò mai le sue parole di amore verso il prossimo, che sono diventate anche le nostre: “Non lasciate mai che qualcuno soffra da solo”».
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