La vita, alla fine, va avanti e prende il sopravvento. E’ l’insegnamento migliore che Cesare Moisè Finzi, ex primario di Cardiologia a Faenza e da 40 anni residente nella città delle ceramiche, regala ai ragazzi delle scuole quando li incontra per presentare il suo libro “Il giorno che cambiò la mia vita” (Topipittori). Lunedì 21 gennaio l’autore sarà alla scuola media Arfelli di Cesenatico grazie alle librarie di Cartamarea, che sul testo di Finzi hanno già fatto riflettere gli studenti.
Finzi, qual è stato il giorno che le ha cambiato la vita?
“Il 3 settembre del ’38. Avevo otto anni, vivevo a Ferrara. Uscii per comprare il Corriere della Sera per mio padre e rimasi scioccato dalla notizia del giorno: gli studenti e gli insegnanti ebrei non avrebbero potuto più frequentare le scuole pubbliche”.
Aveva mai avuto il sentore della discriminazione, prima di allora?
“Mai. Nemmeno i miei genitori avevano immaginato, visto che non appartenevano alle stanze dei bottoni. Le cose precipitarono improvvisamente. Quando vidi le espressioni di mia madre e di mio padre, capii la gravità di quello che stava succedendo”.
La sua quotidianità cambiò subito?
“No, fino al ’43 solo relativamente. La comunità ebraica di Ferrara era piuttosto numerosa e poteva disporre di una scuola privata, dove continuai a studiare. Ma dopo l’8 settembre, quando davvero iniziò la caccia all’ebreo e ci trovammo di fronte ad una questione di vita o di morte, la vita non fu più la stessa. Scappammo a Ravenna, dove capitammo dalla famiglia Muratori, che ci ospitò per una notte, visto che c’era il coprifuoco e nessun civile poteva rimanere per le strade, pena la cattura”.
Quando siete riusciti a tornare a casa?
“Dopo il ’45. Prima ci nascondemmo a Mondaino, mentre i Muratori continuarono a fare da tramite tra noi e i nostri parenti, che ci facevano avere in questo modo i soldi di cui avevamo bisogno. Il mio primo libro si chiama ‘Qualcuno si è salvato’ proprio per questo. Ma nulla, dopo, è più stato come prima”.
Che cosa, in particolare?
“Ero un ragazzo, ripresi a studiare e divenni medico. Mi feci una famiglia. Ho una figlia che vive a Gerusalemme ed è mamma di una ragazza di 21 anni. Mio figlio abita a Milano, ha tre figli. La vita è continuata ma i ricordi restano, indelebili. Molti familiari e amici non sono più tornati, questo è impossibile da dimenticare”.
E quando incontra i ragazzi, quali sono le curiosità ricorrenti?
“Mi chiedono come mi sento, se ho perdonato. Io rispondo che posso perdonare quello che hanno fatto a me, ma non quello che hanno fatto agli altri. Non riesco mai a raccontarmi davanti a loro senza commuovermi”.
Le sono mai capitate domande scomode?
“Il bello di incontrare i giovani è la loro spontaneità. Non sono dei politicanti, non usano il politicamente corretto. Una volta mi hanno chiesto se mi sono mai vergognato di essere ebreo. Non ho certo reagito male, anzi. E poi ricordo un ragazzo brasiliano adottato da una famiglia di Faenza, che mi fece una carezza alla fine della presentazione”.
I giovani sono preparati su tematiche di questa importanza?
“Purtroppo no, la conoscenza di quel periodo storico è molto confusionaria. Io continuo la mia attività di ricerca, tanto che a Faenza mi hanno definito come storico della presenza ebraica”.
In questo articolo ci sono 0 commenti
Commenta