Scuola e famiglia: due istituzioni che solo di rado comunicano

Scuola e famiglia: “Non si può non comunicare!”, direbbe Paul Watzlawick. Due istituzioni educative così importanti devono comunicare per il benessere dei ragazzi. Per comunicare in modo efficace però, ascolto, fiducia e rispetto non devono mancare.

Per favorire questo processo va sicuramente ridotta l’asimmetria tra scuola e famiglia, che è quella distanza istituzionale ed emotiva che rende l’incontro difficoltoso. Non si tratta di perdere l’autorità da parte della scuola, né quella educativa della famiglia, ma di entrare in un processo di conoscenza reciproca che favorisca la fiducia di base per poter comunicare in modo efficace.

“Risignifichiamo i significati!” è il mio motto. Per fare questo dobbiamo dire cosa s’intende quando si parla di comunicazione, soprattutto tra scuola e famiglia.

Si comunica davvero quando c’è rispetto reciproco per la controparte e questo significa prima di tutto saper ascoltare. Spesso accade che c’è prevaricazione, data dal bisogno di chi parla, di imporre la propria idea piuttosto che provare piacere nel condividere il proprio pensiero ed incontrare il pensiero dell’altro.

Sempre più spesso la cronaca ci racconta di episodi in cui il genitore arrabbiato affronta con violenza, sia fisica sia verbale, gli insegnanti del proprio figlio, perché non ne condividono il giudizio su qualche materia. Sento spesso da parte dei genitori frasi del tipo: “Se dico quello che penso agli insegnanti, poi si rifanno su mio figlio” oppure “se prova a bocciare mio figlio, poi dovrà vedersela con me”. Sono sufficienti queste due frasi ricorrenti per capire quanto ancora siamo lontani da una reale alleanza scuola-famiglia.

Questo succede quando non ci si fida dell’altro e, senza capirne le ragioni, si crede di ottenere tutto con la violenza.

Dal mio punto di vista, serve un apprendimento alla comunicazione, perché “ci hanno insegnato a parlare, ma non a comunicare”.

Ascoltare non è sinonimo di sentire, per ascoltare serve pazienza, attesa, attenzione e la capacità di porsi delle domande come questa: “Qual è il focus della conversazione?” “quale bisogno deve soddisfare il mio interlocutore?”. Inoltre: “Lo sta dicendo partendo da sé o deresponsabilizzandosi? (delegando la responsabilità all’altro)”.

All’interno di una comunicazione s’intrecciano spesso pregiudizi, malumori, speranze, delusioni, aspettative e quando il tutto è mescolato in maniera tale da confonderne i contenuti, il rischio è quello di non riuscire a gestire la conversazione e di confliggere.

Dal mio punto di vista chi opera nel settore sociale dev’essere un esperto comunicatore, un facilitatore delle relazioni umane per favorire le dinamiche tra le persone.

Quando ascolto gli insegnanti, percepisco questo loro bisogno di proteggersi da tutto ciò che riguarda gli aspetti familiari dello studente, ma credo che quando accogliamo un ragazzo/a non possiamo pensare alla sua famiglia come ad una cosa separata, esclusa dal sistema educativo.

La domanda è: come includere la famiglia nella scuola mantenendo l’autorevolezza istituzionale?

E’ necessario fare una riflessione per incontrare un pensiero nuovo, un pensiero che abbracci l’idea che collaborare si può ed è bello.

La conoscenza reciproca è necessaria per fidarsi: mentre un tempo quasi nessun genitore metteva in dubbio quelle che erano le competenze degli insegnanti e dirigenti scolastici, oggi c’è timore e sospetto per tutto ciò che non vediamo direttamente con i nostri occhi.

Ecco quindi che risulta essere necessaria la formazione del personale docente che prevede l’insegnamento all’ascolto attivo e la capacità di comunicare in maniera empatica.

Inoltre è importante offrire gli strumenti ai genitori che a loro volta dovrebbero affiancare i figli nel complesso processo educativo.

Oggi all’insegnante viene chiesto di essere un buon counselor: capace di comunicare e far comunicare..

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