Jacopo: “Ho donato il midollo e spero di aver salvato una vita. Ma non chiamatemi eroe”

C’è una lettera che Jacopo non riesce a finire di scrivere. Inizia così: “Ciao, non so chi sei, dove vivi e da dove vieni. Non sono una persona religiosa ma prego ogni giorno che tu stia meglio e sia tornato da chi ami”. Jacopo non ha il coraggio di terminarla, forse se ci riuscisse non avrebbe comunque la forza di mandarla: “Sono un ragazzo sensibile. Spero davvero, con tutto il cuore, che il trapianto abbia avuto un lieto fine”.

La persona alla quale la lettera si rivolge ha ricevuto il midollo osseo di Jacopo, che vive in provincia di Forlì-Cesena. Tutto inizia al liceo, quando l’Admo (Associazione donatori midollo osseo) di Forlì-Cesena entra a scuola per sensibilizzare gli studenti a iscriversi al registro italiano: “Non ne avevo mai sentito parlare prima. Ma insieme ad altri sei o sette miei compagni, mi sono reso disponibile alla tipizzazione attraverso il kit salivare. Da quel momento, non ci ho più pensato. Forse avevo preso la cosa alla leggera, forse ero convinto che non mi avrebbero mai chiamato: la compatibilità con un malato di leucemia o di altre malattie del sangue è una possibilità che avviene in un caso su 100.000″. 

Un giorno, però, arriva una chiamata: “Non ricordo bene chi ci fosse dall’altra parte della linea, so solo che ero a casa e mi è stato chiesto se avessi ancora voglia di donare, perché ero risultato compatibile con un paziente. Per qualche attimo sono rimasto perplesso, poi ho collegato. Ancora oggi, quando ci penso, mi sembra una telefonata surreale: incredibile fossi proprio io”. Jacopo torna subito lucido e risponde di sì, senza alcun dubbio: “Da quel momento è iniziato l’iter degli esami: prima i prelievi, poi i raggi al torace, l’elettrocardiogramma. Bisognava confermare che il mio midollo fosse il più compatibile possibile con il mio ricevente ma anche che io fossi in perfetta salute”.

Quando a Jacopo viene comunicato il via libera alla donazione, la gioia è molta: “Mi sono subito reso conto che quella disponibilità data anni prima e che quel tempo speso a farmi visitare e controllare erano valsi a qualcosa”. Dopo la somministrazione della proteina che attiva la crescita delle cellule staminali nel midollo osseo e il loro passaggio al sangue periferico, arriva finalmente il giorno della donazione, al Sant’Orsola di Bologna: “Io mi ero detto pronto sia al prelievo dal bacino, un intervento chirurgico di circa 45 minuti, sia al prelievo dal sangue periferico, che è stata poi l’opzione scelta. Si tratta, in sostanza, di fare passare il sangue in una centrifuga dove le cellule utili al trapianto vengono isolate e raccolte in una sacca isolata. Il resto, invece, viene rimesso in circolo utilizzando l’altro braccio. Io sono andato con mia madre Giovanna e ho mangiato pizzette, salatini e cioccolato per tutte le quattro ore, steso sul lettino”.

Una volta uscito, Jacopo si sente bene e a posto col mondo: “Ma raccontarlo agli amici non ha sempre avuto un esito piacevole. Secondo me donare è un’azione umana, non è nulla di eroico e straordinario. Dopo un po’, sentirmi dire ‘bravo’ quasi mi urtava. Io avrò perso forse quattro giorni della mia vita ma chissà, magari ho salvato una vita. Non capisco perché chi può iscriversi al registro perché ha i requisiti, non lo faccia”. Il dubbio di essere stato o meno decisivo nella salvezza della persona trapiantata, ovviamente, è un tarlo di non poco conto: “Io non so niente di questa persona, la sua malattia mi è stata comunicata in fretta ma io temo di non aver capito. So, invece, che il suo caso rientrava in quell’1,8% in cui i pazienti hanno meno del 20% di salvarsi grazie alla donazione”. Ogni volta che ha provato ad immaginarsi di chi si possa trattare, Jacopo ha visto davanti a sé un giovane padre di due figli, magari trentenne, con i capelli scuri e una bella famiglia: “Probabilmente sono solo fantasie lontane dalla realtà ma questa è l’immagine che spesso mi compare davanti”. Un’immagine che fa il paio con la forte presenza che Jacopo sente accanto a sé: “Il mio gruppo sanguigno è A positivo, dopo il trapianto la persona a cui ho donato ha iniziato ad avere lo stesso mio gruppo. Idem se io fossi allergico alla polvere: anche lui o lei lo sarebbe. Il fatto di essere fratelli genetici mi fa un certo effetto”.

Da gennaio Jacopo svolge il servizio civile all’Admo di Forlì, dove si occupa anche di sensibilizzazione e dà una mano nella parte che gli compete: accoglienza e organizzazione del personale sanitario accreditato che svolgerà il tampone salivare al potenziale donatore, dopo la verifica di un questionario anamnestico. Jacopo, dal canto suo, spera di donare più: “Avrei il timore che il trapianto non fosse andato bene e ci fosse stata una ricaduta della malattia per il mio fratello genetico”. Per prassi, infatti, si può donare a una sola persona ma poiché si tratta di malattie tremende, a volte ci sono delle recidive nell’arco dei cinque anni per cui si chiede la disponibilità al donatore che aveva già donato. Una terza volta, in realtà, si può donare ma solo se si tratta di un familiare.

Tra le persone più orgogliose di questa storia, intorno a Jacopo, c’è la mamma: “Quando ancora non sapeva che il midollo è nelle creste iliache e non nella colonna vertebrale, era contraria. Nel momento in cui ha avuto le giuste informazioni, è stata molto felice e fiera di questa mia scelta partita un po’ per caso”.

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