Esistono davvero i cosiddetti nuovi padri? E l’istinto paterno? Si è meno uomini se si cambiano pannolini? Domande alle quali cercheranno di rispondere gli esperti a raduno a Ravenna venerdì 26 e sabato 27 febbraio per il seminario di studi “L’ambiguo paterno” organizzato dall’associazione Femminile Maschile Plurale (sala Muratori della biblioteca Classense, via Baccarini 5, programma completo qui). Tra i relatori anche Stefano Ciccone, uno dei fondatori dell’associazione locale e della rete nazionale Maschile Plurale.
Professore, la parola ‘mammo’ oggi imperversa. Perché?
“Perché se è vero che oggi i papà stanno cambiando ed esprimono molto più di un tempo la loro voglia di stare con i figli, continuano a pensarsi sempre in riferimento al modello femminile, come se non esistesse una specificità maschile nell’essere genitori. Nemmeno la società li riconosce pubblicamente in questo senso. Il cambiamento, quindi, è solo a metà. Ho notato, ultimamente, una pubblicità di una marca di pannolini che li definisce ‘a prova di papà’: un’ulteriore immagine di papà inabili alla cura che non fa che perpetuare lo stereotipi degli uomini incapaci a occuparsi dei bambini”.
Dov’è l’ostacolo culturale più duro a morire?
“Quello del corpo. Al contrario del corpo della donna, considerato da sempre accogliente, quello dell’uomo è ancora visto come problematico, sessualizzato, potente e violatorio, ben lontano dal concetto di luogo di cura che immaginiamo quando pensiamo a un bambino da crescere. Su questo terreno si gioca il vero cambiamento culturale”.
Le leggi possono dare una mano nell’agevolare la reinvenzione della paternità?
“Da sole, le leggi non sono mai risolutive. Penso per esempio al congedo parentale: in Trentino e in Spagna abbiamo raccolto alcune esperienze di papà che, per essersi assentati dal lavoro per stare con i figli, poi venivano svalutati o perdevano autorevolezza agli occhi di capi e colleghi. Come se sottrarsi alla carriera o ai progetti professionali per un po’ di tempo fosse segno di debolezza. L’altra faccia della medaglia è quando una mamma punta a realizzarsi sul lavoro e viene considerata egoista e poco propensa alla maternità. Si fatica ancora a capire che non è una guerra l’uno contro l’altra, che lo stereotipo della donna che si prende cura dei bambini e dell’uomo che porta a casa i soldi danneggia tutti”.
Dove lo si vede di più?
“Nei casi di separazione. Il giudice decide in genere sulla base dell’idea che sia la donna la più adatta a tenere i figli con sé. E così vediamo padri disperati per essere stati scippati della possibilità di stare con i bambini. Un bisogno di relazione e affetto che emerge solo nel terreno del conflitto, come in una competizione che in realtà non dovrebbe essere tale”.
Uscire dal modello di una paternità rigida è la chiave. In questo senso avete invitato Sergio Lo Giudice, papà omosessuale. L’omogenitorialità può aiutarci a uscire dall’idea che si possa essere papà in un modo solo?
“Assolutamente sì. Tante paure intorno all’omogenitorialità sono legate proprio a un concetto rigido dei ruoli e delle funzioni che gli uomini e le donne hanno all’interno della famiglia. Essere a favore dei diritti delle persone omosessuali, anche a quello che possano essere genitori, significa fare una battaglia di libertà per tutti. Anche per gli uomini e le donne eterosessuali. Significa, per esempio, sostenere l’idea che un uomo possa esserlo a modo suo, che un padre possa esserlo a modo suo. Lontano da quel modello di virilità ostentata senza la quale sembra che un maschio sia ridicolo”.
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