Una storia d’amore inizia così, in fin dei conti: un groviglio di emozioni contrastanti, dalla felicità alla paura all’incredulità. E così è la prima volta che si stringe in braccio un figlio. Poi inizia l’avventura: prima i pannolini, l’asilo nido, le prime parole, i giochi al parco. Poi le estati al mare dai nonni, la scuola dell’infanzia, il corso di danza, le prime feste di compleanno. E a 4 anni la domanda: “Anch’io sono nata dalla tua pancia?”. Kebede (il nome è di fantasia), due occhi grandi e fondi piantati dritti in quelli di sua madre, vuole sapere.
Kebede è nata in un Etiopia ed è stata adottata a 6 mesi da una coppia italiana (Isabella, 43 anni, ed Elias, 41), allora sposata da 6 anni. “Non avevamo fretta di avere figli per via del mio pendolarismo e del precariato – racconta la mamma, che per lavoro ha fatto la spola tra due città distanti un centinaio di chilometri. “Ma a 38 anni, dopo un annetto di tentativi, siamo entrati in allarme”. Alle visite di controllo seguono due tentativi di fecondazione assistita. Il carico di medicinali, i mesi che passano, gli sbalzi d’umore dovuti alle cure, lo sconforto all’arrivo delle mestruazioni: sono esperienze che provano, unite alla pressione per l’incertezza lavorativa. “Il desiderio di un figlio che non arriva è qualcosa che capisce solo chi ci è passato”, confida Isabella. “Avevamo due alternative: o continuare quel percorso dagli esiti incerti, con il carico di trattamenti e decisioni in gran parte su di me, o provare con l’adozione. Abbiamo deciso assieme per questa seconda strada, e anche mio marito è stato più partecipe e coinvolto. E da subito abbiamo provato sollievo”.
Seguono altri 4 anni e mezzo, di cui i primi tre tra domande al tribunale dei minorenni, colloqui, visite, relazioni di assistenti sociali del Comune e psicologi dell’Asl, corso preparatorio, perizia psichiatrica, rivalutazione del giudice e infine decreto di idoneità all’adozione emesso dal Tribunale.
Gli aspiranti genitori vengono posti davanti alle possibilità più difficili e valutati anche in base alla propria esperienza familiare. Sono in gioco conflitti, affettività, ma anche capacità di cura e di mantenimento (in caso di bambini con handicap permanenti gravi, o dal vissuto particolarmente traumatico). La coppia deve saper accettare anche il rischio che un bimbo in affidamento pre-adottivo, il cui rapporto con la famiglia d’origine non è ancora definito, potrebbe poi tornare dai genitori naturali.
“Io non ho nascosto che di fronte a problemi psichici importanti non ero sicura di farcela” ammette Isabella. “Ci hanno chiesto cosa avremmo fatto con un bimbo abituato a rubare, o dalla famiglia con problemi di droga, o violento. Bisogna essere sinceri e molto motivati per proseguire”. Il passaggio fondamentale di questo percorso? “Capire che non stai adottando per un bisogno tuo di avere un figlio, ma per aiutare un bambino che è stato sfortunato”.
Dopo la relazione finale di Asl e Comune, un colloquio con il giudice e infine il decreto del Tribunale dichiara la coppia idonea ad adottare un bambino da 0 a 5 anni. Elias e Isabella sono così iscritti nelle liste per le adozioni, sia in Italia che per quelle internazionali. “A quel punto però sei solo – ricorda Isabella -: o aspetti che ti chiamino, o devi attivarti per l’estero, informandoti su chi contattare. Per quanto abbiamo potuto capire, in Italia sono relativamente pochi i bambini adottabili perchè abbandonati da neonati, sia per la nostra cultura sia per l’assistenza data alle famiglie. Sono adottabili per lo più bambini tolti alle famiglie naturali per gravi problemi, e che quindi in genere sono più grandi. Noi però siamo stati valutati idonei solo per bimbi fino a 5 anni, quindi avevamo più possibilità all’estero”.
1- Continua
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